Si sa che per democrazie moderne il militarismo costituisce una - TopicsExpress



          

Si sa che per democrazie moderne il militarismo costituisce una specie di bestia nera. La lotta contro il militarismo è stata una delle loro parole d’ordine preferite, associata al pacifismo ipocrita e alla pretesa di legittimare la “guerra giusta” unicamente nei termini di una necessaria operazione internazionale di polizia contro un “aggressore”. Nel periodo della prima e della seconda guerra mondiale, un pruno nell’occhio tutto speciale è stato, per le democrazie, il cosidetto “militarismo prussiano”, che ad esse è apparso come il prototipo del fenomeno deprecato. Noi qui ci troviamo dinanzi ad una antitesi caratteristica, la quale non si riferisce tanto alle relazioni fra gruppi di nazioni rivali, quanto a due concezioni generali della vita e dello Stato, anzi perfino a due distinte, irriconciliabili forme di civiltà e di società. Ora, in un riferimento storico concreto siffatta antitesi si riflette appunto in quella esistente fra la concezione propria alla tradizione germanico-prussiana e il punto di vista, o orientamento, che per primo si affermò nell’Inghilterra, dalla quale in sèguito doveva passare in America e, in genere, nelle nazioni democratiche, in stretta relazione col predominare in esse dei valori economici e mercantili e del loro decisivo svilupparsi nel senso del capitalismo. Quanto all’altra direzione, abbiamo già ricordato che essa trasse la sua prima origine da una organizzazione ascetico-guerriera, dall’antico Ordine dei Cavalieri Teutonici. In essenza, l’antitesi di cui si tratta si riferisce al diverso rapporto con cui l’elemento militare sta rispetto a quello borghese, epperò anche al diverso significato e alla diversa funzione che al primo si riconoscono nel complesso della società e dello Stato. La concezione delle democrazie moderne che, come si è detto, per primo si affermò nell’Inghilterra, nell’antesignata del mercantilismo, è che nella società, l’elemento primario è costituito dal tipo borghese e dalla vita borghese del tempo di pace, vita determinata dalla preoccupazione fisica per la sicurezza, per il benessere e la prosperità materiale, da cornice ornamentale servendo lo “sviluppo delle lettere e delle arti”. Così secondo questa veduta, in via normale e in via di principio è l’elemento “civile” o “borghese” che dir si voglia, che deve reggere lo Stato. È vero che fra la politica e – per usare la nota espressione del Clausewitz – quando la politica, come politica internazionale, va continuata con altri mezzi, fa uso delle forze armate. A tale stregua l’elemento militare e, in genere, guerriero, ha un significato subordinato quello di un semplice strumento: nessuna particolare influenza o ingerenza esso dovrebbe avere nella vita associata in genere. Anche se si riconosce che l’elemento militare ha una propria etica, da un tale punto di vista si giudica indesiderabile che questa etica si applichi alla vita normale complessiva di una nazione. La veduta, di cui si tratta, è infatti strettamente collegata con la persuasione umanitario-liberalistica, che la civiltà vera nulla ha da vedere con quella triste necessità e quell’ “inutile macello” che è la guerra, che essa ha per fondamento non le virtù guerriere ma quelle “civiche” e “sociali” informate dagli “immortali principi”, che la “cultura” e la “spiritualità” si esprimono nel mondo del “pensiero”, delle scienze e delle arti, mentre ciò che ha attinenza con guerra e militarità s riduce alla semplice forza, a qualcosa di materialistico e di privo di spirito. Appare pertanto che, in questo quadro, più che di elemento guerriero o militare, si dovrebbe parlare di elemento “soldatesco”. Infatti “soldato” in origine voleva dire chi esercitava il mestiere delle armi per il soldo (quasi nel senso di un “assoldato”), è un termine che si riferì alle truppe mercenarie che l’una o l’altra città arruolava e manteneva per difendersi o per attaccare, i cittadini veri e propri non facendo la guerra, accudendo invece come borghesi alle loro facende private (1). Opposto al “soldato” in questo senso era il tipo del guerriero e dell’appartenente dell’aristocrazia feudale, inquantoché la classe costituita da tale tipo faceva da nucleo centrale in una corrispondente organizzazione sociale, non era al servigio di un ceto borghese, aveva invece il borghese in soggezione, la difesa di esso implicando la dipendenza, non la supremazia di esso su chi aveva diritto alle armi. Malgrado la coscrizione obbligatoria e la creazione degli eserciti stanziali, la parte riconosciuta al militare nelle stesse democrazie moderne resta dunque più o meno quella del semplice “soldato”. Come si è detto, per esse le virtù militari sono una cosa, quelle civiche sono un’altra, è sulle seconde che si fa cadere l’accento, sono esse che si hanno essenzialmente in vista per la formazione della vita. Secondo la formula più aggiornata della corrispondente ideologia, gli eserciti avrebbero solo da servire come una polizia internazionale intesa a difendere la “pace”, il che nel migliore dei casi, vuole dire la vita indisturbata delle nazioni più ricche. Altrimenti, a parte la maschere, si ripete quel che fu già proprio alla Compagnia delle Indie e ad analoghe imprese: le forze armate servono alle democrazie moderne per imporre o mantenere una egemonia economica, per assicurarsi marcati e materie prime e per creare spazi a capitali in cerca di investimento e di profitti. Non si parla di mercenari, molte belle e nobili parole vengono pronunciate, facendo appello alle idee di patria, di civiltà e di progresso, ma, tutto sommato, la situazione non differisce un gran che: abbiamo sempre il “soldato” al servizio del “borghese” in funzione specifica di “mercante”, il “mercante”, se preso nell’accezione più vasta, essendo il tipo sociale o la casta che sta al primo piano nella civiltà in quistione, che è appunto una civiltà sostanzialmente capitalista. In particolare, la concezione democratica non ammette che la classe politica abbia tratti e struttura militari; in ciò essa vedrebbe il peggiore dei mali e, appunto, un “militarismo”. Dei borghesi debbono, come politicanti e rappresentanti di una maggioranza numerica, reggere la cosa politica; quanto spesso nelle democrazie una tale classe dirigente, a sua volta, stia praticamente al servizio di interessi e gruppi economici, finanziari, laburisti o industriali, è cosa ben risaputa. A tutto quest’ordine di idee si contrappone la verità di coloro che riconoscono il superiore diritto di una concezione guerriera della vita, con la spiritualità, i valori e l’etica ad essa propri. Tale concezione ha, si, una espressione specifica in tutto quanto ha particolare attinenza con la guerra e la professione delle armi, ma ne si riduce né si esaurisce in ciò; essa è suscettibile a manifestarsi anche in altre forme e in altri domini, tanto da dare il tono complessivo ad un dato, inconfondibile tipo di organizzazione politico-sociale. In tale quadro i valori “militari” si avvicinano a quelli propriamente guerrieri e si ritiene desiderabile che essi si uniscano ai valori politici ed etici e diano allo Stato la sua più salda base. La concezione borghese antipolitica di ciò che è “spirito” qui viene respinta, e respinto viene anche l’ideale umanistico-borghese della cosidetta “cultura” del cosidetto “progresso”. Si vuole invece fissare un limite alla borghesia e allo spirito borghese nelle articolazioni e nell’ordine complessivo dello Stato. Ora, non si intende dire che militari veri e propri debbono avere nelle loro mani la direzione della cosa pubblica, a prescindere da casi di emergenza (così, recentemente, questa è apparsa essere l’unica soluzione per arrestare l’avanzata della sovversione – Spagna, Grecia, Turchia), ma si tratta di riconoscere a virtù, discipline e sentimenti di tipo militare una preminenza, una superiore dignità rispetto a tutto ciò che è genericamente borghese. Vale aggiungere che nemmeno si pensa alla “caserma come ideale”, ad una casermizzazione dell’esistenza (che è uno dei tratti del totalitarismo), sinonimo di irrigidimento, di meccanico ed ottuso disciplinamento. Amore per la gerarchia, rapporti di comando e di obbedienza, coraggio, sentimenti di onore e di fedeltà, forme specifiche di attiva impersonalità capaci di svilupparsi sino al sacrificio anonimo, relazioni chiave ed aperte da uomo ad uomo, da camerata, da capo a seguace – tutti questi sono i valori caratteristici, vivi, ai quali nell’accennata concezione si riconosce il diritto di predominare nella vita – sono i valori stessi che quella che abbiamo chiamata la “società di uomini” ha in proprio. Quanto ha univoca attinenza con l’esercito e la guerra, ripetiamolo, rispetto a tutto questo costituisce solamente un dominio particolare. Ciò non impedisce però che, come caso-limite, ai valori propriamente eroici sia tributato un preciso riconoscimento, che il fenomeno della guerra in questo quadro appaia secondo un significato diverso da quello soltanto negativo attribuitogli dalle democrazie e dall’umanitarismo, ma anche da un mendace comunismo “antimperialista” e pacifista; che certe dimensioni spirituali, anzi metafisiche, di tale fenomeno siano sentite come possibili. Nessuna antitesi, ma anzi identità, fra spirito e superiore civiltà da un lato e, dall’altro, mondo di guerra e di guerrieri, nel senso generalizzato ora chiarito. Si può rilevare che, sotto un certo riguardo, il contrasto accennato circa il significato dell’elemento militare riflette altresì quello fra due epoche. Qui non è il caso di ripetere quel che abbiamo già avuto occasione altrove di esporre estesamente (1), cioè quanto spesso nel mondo tradizionale ricorse la interpretazione della vita come una lotta perenne fra potenze metafisiche, da un lato stando le forze uràniche della luce e dell’ordine, dall’altra quelle oscure e telluriche del caos, e della materia. Questa lotta per l’uomo tradizionale era da combattere e da vincere sia nel mondo interiore che in quello esteriore. E come vera guerra giusta sul piano esteriore veniva considerata quella che riproduceva in altri termini la stessa lotta da combattersi in sé stessi: era la lotta contro forze e genti che nel mondo esteriore presentassero gli stessi caratteri delle potenze che, nel singolo, vanno soggiogate e dominate interiormente sino al compimento di una pax triumphalis (2). Segue da ciò una interferenza dell’idea guerriera con quella di una certa “ascesi”, di una disciplina interna e di una tal quale superiorità rispetto a sé, o controllo di sé, che in vario grado ricorre nelle migliori tradizioni guerriere e che si mantiene sullo stesso piano militare in senso ristretto, con l’autentico valore di una cultura, nel senso antiintellettualistico di formazione e di possesso di sé. Contrariamente a quel che la polemica borghese e liberale pretende, l’idea guerriera non si riduce ad un materialismo, non è sinonimo dell’esaltazione del bruto uso della forza e di una violenza distruttrice – ma la formazione calma, cosciente, dominata dell’essere interiore e della condotta, l’amore per la distanza, la gerarchia, l’ordine, la facoltà di subordinare l’elemento passionale e individualistico di sé stessi a principi e fini superiori, specie, nel segno dell’onore e del dovere, sono parti essenziali di essa e basi per un preciso “stile”, il quale doveva andare in gran parte perduto quando dagli Stati che vengono considerati “militaristici”, ove tutto ciò corrispondeva ad una lunga severa tradizione, quasi di casta, si è passati agli Stati democratici e nazionalistici, nei quali il dovere del servizio alle armi ha preso il posto del diritto alle armi. L’antitesi, pertanto, non è fra i “valori spirituali” e la “cultura” da un lato, il “materialismo militaresco” dall’altro, l’antitesi è fra due modi di concepire ciò che è spirito e cultura e ci si deve opporre risolutamente alla concezione democratica, borghese e umanistica del XIX secolo, la quale, in corrispondenza all’avvento di un tipo umano inferiore, ha voluto presentare come legittima e ineccepibile solo la sua interpretazione.in realtà – ed anche a questo volevamo venire – è esistito tutto un ciclo di civiltà , segnatamente nell’area indo-europea , nelle quali elementi, sentimenti e strutture di tipo analogicamente guerriero furono determinanti in tutti i domini dell’esistenza, fino a quello del diritto familiare e gentilizio, essendo invece limitati i fattori a carattere naturalistico, sentimentale ed economico. L’idea gerarchica non si esaurisce certo nella gerarchia a base militare o guerriera, la forma più originaria di gerarchia si definisce con valori d’ordine essenzialmente spirituale – etimologicamente “gerarchia” altro non vuol dire che “sovranità del sacro” (ieros). Tuttavia va considerato che anche le gerarchie a base spirituale in molte civiltà assunsero come supporto gerarchiche più o meno simili a quelle virili e guerriere, o ne riprodussero esteriormente la forma. Così quando l’originario livello spirituale non poté più essere mantenuto, sono state proprio strutture gerarchiche di tipo guerriero a formare l’ossatura dei maggiori Stati, specie in Occidente (1). Il prussianesimo questa bestia nera delle democrazie, non va pertanto considerato come l’anomalia di un dato popolo; al contrario, in esso devesi vedere lo stesso stile che, presene anche altrove in modo più o meno definito in base ad un ideale generale di civiltà e di cultura, per un insieme di circostanze propizi nei paesi germanici ha potuto conservarsi fino a tempi recenti – come un “residuo oscurantistico intollerabile”, secondo gli esponenti progressisti di questa epoca. E a conferma di quanto si è detto più su va rilevato che il prussianesimo come stile non ha riguardato soltanto il militare; esso, definendosi propriamente come federichianesimo, ha sì, dato forma a una delle più severe e aristocratiche tradizioni militari europee, ma in pari tempo ha manifestato la sua influenza in tutto ciò che è servizio allo Stato, in tutto ciò che è lealismo e antindividualismo; esso ha educato una classe di funzionari secondo una linea ben diversa dalla mera burocrazia, dal travettismo, dalla svogliata e irresponsabile amministrazione della cosa pubblica (2). In più, questo stile non ha mancato di agire spesso nelle stesso settore dell’economia, assicurando, al subentrare dell’era industriale, un’intima coesione a grandi complessi industriali condotti quasi da linee dinastiche di imprenditori che erano rispettati ed obbediti dalle maestranze quasi in termini di militare fedeltà e solidarietà. Così nella polemica circa il significato dell’elemento guerriero e militare si riflette l’antitesi fra due epoche, ma, in più, in essa si tradisce anche la polemica fra le due parti di un organismo effettivo, la parte sociale e la parte politica. La democrazia antimilitarista è espressione della “società”, che coi suoi ideali fisici di pace e, al massimo, di guerra difensiva per la pace, si contrappone al principio politico, a quello della “società di uomini”, forza formatrice dello Stato che sempre si è appoggiata ad un elemento guerriero o militare avendo in proprio altri ideali, non fisici ma di onore e di superiorità. È dunque ancor un sospetto dei fenomeni regressivi e di emergenza aggressiva dell’inferiore già da noi studiati, quello che si è concretizzato sul piano internazionale nella ideologia democratica mobilitata nelle due guerre mondiali. Ciò a parte, dal punto di vista pratico va riconosciuto che nei tempi moderni, essendosi largamente atrofizzata nei popoli occidentali la sensibilità per valori e dignità puramente spirituali (e spirituali, tradizionalmente, non vuol dire per nulla “intellettualistici” e “culturali”), il modello di una gerarchia militare, pur non essendo, come si è detto, quello più alto e originario, è quasi l’unico che può ancora servir da base ed agire per dare risalto ai valori gerarchici in genere e così, in molti casi, per salvare il salvabile. Quel modello conserva tuttora un certo prestigio, esercita tuttora una certa attrazione su ogni tipo umano che non sia completamente sfaldato, e “socializzato”. Perché, malgrado ogni propaganda antimilitarista culminante negli attuali squallidi invertebrati “obiettori di coscienza” contestatori, vi è un fondo eroico nell’anima occidentale che non può venire totalmente estirpata. Ad esso, con un’adeguata visione della vita, si può forse fare ancora appello. In relazione a ciò, un’ulteriore considerazione riguarda un’attitudine generale e un certo livello di tensione, che in molti settori della vita contemporanea si rendono necessari, con l’effetto di relativizzare la distinzione fra vita di pace e vita di guerra. Noi non alludiamo alle lotte politiche di partito, fenomeni che riguardano unicamente un periodo di decadenza e di carenza dell’idea di Stato: si tratta piuttosto di tutti quegli aspetti, del vivere moderno che, per poter venire padroneggiati, per non avere effetti distruttivi sul singolo, esigono un’assunzione completa della propria posizione, un esser in atto tale che, come nel soldato, non si rifugga dal far del rischio e della disciplina una parte integrante del proprio modo d’essere. Anche qui si tratta dell’atteggiamento opposto a quello dell’uomo borghese. Non si può certo esigere che un simile clima di tensione viga in permanenza e sia presente in ognuno nello stesso grado, tuttavia nei tempi attuali in diversi casi non vi è altra scelta, e proprio in base alla varia capacità dei singoli di adeguarsi a tale clima, di amare tale clima, possono determinarsi, in ogni dominio, selezioni e gerarchie nuove, gerarchie reali, esistenziali, tali di trovare naturale riconoscimento in ogni essere umano sano. È poi ovvio che le nazioni dove simili premesse sono sufficientemente realizzate saranno anche le meglio preparate per la guerra, non solo, ma saranno altresì quelle per le quali la guerra acquisterà un significato superiore. È l’equivalente, circa il primo punto, di ciò che vale sul piano materiale, ove l’efficienza bellica di una nazione si misura dalla possibilità virtuale delle industrie e della economia di pace di subito convertirsi in industria ed economia di guerra. Esisterà cioè una certa continuità di spirito e di attitudine, un comune denominatore morale in pace e in guerra a facilitare il passaggio dall’uno stato all’altro. Giustamente è stato affermato che la guerra mostra ad una nazione ciò che per essa la pace ha significato. La formazione “militare” dello spirito ha, come si è detto, un valore indipendente da “militarismo” e da guerra; però essa crea il potenziale necessario a che, ove una guerra si imponga, si sia all’altezza di essa e per combatterla sorga un numero sufficiente di uomini che riproducano in una forma nuova, di cui subito diremo, il tipo del guerriero più che non quello del “soldato”. Tutto l’ordine di idee esposto fin qui viene dunque ignorato o falsato dalla polemica contro il “militarismo”. Sì è che, come in altri casi e in quello dello stesso “totalitarismo”, ad essa il “militarismo” serve solo da falso scopo. Ciò che si vuole colpire e discreditare è, in realtà, tutto un mondo che il mercante e il borghese aborrono, odiano, sentono insopportabile anche quando esso non minacci direttamente la democrazia. Così torna comodo far convergere l’attenzione su ciò che del militarismo costituisce solo una degenerescenza, vale a dire sui casi nei quali un certo ceto di militari di mestiere dalla mentalità e dalle competenze ristrette esercita una influenza artificiosa sulla politica di una nazione, spingendola verso imprese di guerra in combutta con quello che si suole chiamare l’elemento guerrafondaio. Siffatti casi possono venire senz’altro deprecati senza che ciò pregiudichi il valore della concezione genericamente guerriera nei termini dinanzi indicati. Però ciò significa ancor meno seguire le democrazie sul terreno del pacifismo teorico e condividere il loro giudizio unicamente negativo circa il fenomeno della guerra e il significato del combattere. Su quest’ultimo punto è ora il caso di svolgere qualche breve considerazione. E per primo vediamo come le cose stanno proprio nelle attuali democrazie. Esse si trovano in una contradizione che mina la loro stessa esistenza fisica. Dopo essersi sforzate a far credere daccapo che la ultima loro “crociata” antieuropea fosse una “guerra contro la guerra”, epperò più o meno l’ultima delle guerre, ora esse si trovano nella necessità di riarmarsi, non essendo con solenni proclamazioni di principi e – per dirla con un Cosimo dei Medici – con paternostri che esse possono difendere i loro interessi di contro ai nuovi “aggressori” e ai guastafeste. La situazione, pertanto, è questa: che le democrazie teoricamente continuano ha deprecare la guerra, a non concepire la guerra che come “difesa” o come aggressore”, ad aborrire il “militarismo” e ad identificare quasi il guerriero col criminale – e proprio con una siffatta preparazione ideologica demoralizzante e disfattistica esse dovrebbero armarsi per far fronte ai loro avversari, cioè al mondo del Quarto Stato organizzato in un blocco di potenza dal comunismo. Certo, l’ideale delle democrazie sarebbe di trovare chi faccia la guerra per loro, come loro “soldati” nel senso di assoldati, esse limitandosi a fornire armamenti, finanziamenti e una ben nota propaganda (“difesa del mondo libero”, “difesa della civiltà”, ecc.). Ma simile propaganda ogni giorno più appare discreditata, in secondo luogo, non ci si debbono creare troppe illusioni circa il valore di una superiorità tecnica ed industriale (sempreché essa non sia addirittura schiacciante) quando nei combattenti non trovi la controparte di un fattore morale e, in genere, dello spirito guerriero, infine; non essendo, più tanto facile trovare ancora l’ingenuo che crederà nell’ “ultima delle guerre è sia così altruista da rischiare e sacrificare la propria vita per coloro che verranno dopo di lui nell’ipotetica, idilliaca èra democratica senza più guerre, si presenta la situazione di colui che sarà costretto a combattere mentre tutta la sua formazione mentale “borghese” e democratica gli fa detestare la guerra, gliela fa concepire come il peggiore dei flagelli, come cosa apportatrice solo di rovina e di abiezione. La migliore possibilità sarà ancora quella di un combattere per disperazione per salvare la pelle, per non dire la borsa, perché le democrazie plutocratiche oggi hanno quasi pensare proprio alla situazione di chi, messo di fronte all’alternativa di dare la borsa o la vita, preferisce rischiare finalmente la vita, pur di non cedere la borsa. Ove dunque non resti altro che da combattere in proprio, ossia ove a combattere siano gli elementi direttamente minacciati e messe con le spalle al muro più o meno in questi termini esistenziali, si vede chiaro in che vicoli ciechi conduce oggi l’ “antimilitarismo” democratico. La civiltà del borghese e del mercante che esalta sole le “virtù civiche” e identifica lo standard dei valori col benessere materiale, con la prosperità economica, con la vita sicura e conformistica a base di lavoro, di produzione, sport, cinema e sessualità ha per effetto l’involuzione e l’estinzione del tipo del guerriero e dell’eroe, restando unicamente il militare come “materiale umano” dal rendimento assai problematico per via della detta carenza del fattore interno, cioè di una corrispondente tradizione e visione guerriera della vita. Tuttavia ci si può chiedere se, dopo le recenti esperienze, non se ne abbia abbastanza, se ci si debba dimenticare di tutto ciò che una “guerra totale” moderna implica, inoltre si può far presente l’estrema tecnicizzazione di una guerra del genere, tale da farla apparire non tanto come una guerra dell’uomo contro l’uomo, quanto della macchina, del materiale e di tutto quello che una scienza arruolata per fini di distruzione radicale può contro l’uomo. Spesso ci si è chiesti che margine resti, in una guerra siffatta, pel tipo tradizionale del guerriero e dell’eroe. La risposta è che qui agisce ciò che gli Orientali chiamerebbero forse una karma. All’uomo moderno non è lasciata altra scelta. Si possono senz’altro accettare le vedute di Ernest Jùnger, per il quale l’uomo moderno, creando la tecnica per dominare la natura, ha firmato una cambiale che non viene presentata allo sconto, anche attraverso un tipo di guerra in cui la tecnica gli si ritorce contro e che lo minaccia di un distruzione non soltanto fisica, ma anche spirituale (1). Così non c’è che da affrontare la propria creatura, che da misurarsi con essa, cosa impossibile ove non si crei quasi un nuova dimensione interiore, la quale, nel caso-limite della guerra, si manifesterà nelle forme di un eroismo freddo, lucido e complesso, di un eroismo in cui l’elemento romantico, istintivo o patriottardo è assente, in cui alla più precisa preparazione tecnica fa riscontro una dimensione, per così dire, sacrificare, ossia la capacità dell’uomo di affrontare, anzi di amare le situazioni più distruttive per via della possibilità che esse, nella loro elementarità, gli offrono di cogliere, come in un àpice, ciò che si potrebbe chiamare la “persona assoluta”. E tutto questo, in una certa misura almeno, non può non estendersi all’insieme di una nazione, dato che nella “guerra totale” moderna la distinzione fra combattenti e non-combattenti si relativizza. Può dunque dirsi che la guerra moderna condurrà solo ad una trasformazione della disposizione eroica e che la sua tecnicizzazione costituirà una specie di prova del fuoco a che tale disposizione assuma una forma quintessenziata, si purifichi e quasi si disindividualizzi, unendosi a forme particolari e complesse di controllo, di lucidità, di dominio. Tale assunzione puramente spirituale e nuda dell’eroismo è forse l’unica che ancora sia possibile. Naturalmente, in questi termini l’eroismo assume un valore autonomo come pura esperienza, come realizzazione individuale. Ora le circostanze nei tempi moderni sembrano tali, che coloro che vogliono ancora essere eroi e guerrieri, proprio questo valore debbono mettere in primo piano. In un romanzo scritto nel clima della seconda guerra mondiale un personaggio finisce col dire: “E’ un lusso potersi battersi avendo una causa giusta”. È una testimonianza significativa circa la sfiducia profonda che si è diffusa nei riguardi dello sfondo ideologico delle ultime guerre, sfondo formato quanto mai da menzogne e da finzioni. Così può anche darsi che le guerre andranno a presentare sempre più i caratteri supposti per esse da certa sociologia, caratteri simili a quelli di fenomeni elementari ineluttabili della natura, relativizzandosi allora il significato e il valore della “causa” in nome della quale, nell’un caso o nell’altro, si combatte. Si può pensare che a concepire le cose in questi termini, in effetto demoralizzante e disfattista non potrà essere evitato. Certo, sarà così – ma solo in chi si atteggi passivamente di fronte al fenomeno della guerra e sia, nello spirito, appunto soltanto un borghese. Per altri, si tratterà solo di invertire i rapporti da mezzo a fini: il valore della “causa”, consisterà nella sua suscettibilità a divenire, a sua volta, semplice mezzo: mezzo per la realizzazione dell’esperienza come “valore autonomo”. Di là da ogni distruzione, di là da ogni ideologia, di là dagli “ideali” questa realizzazione rimarrà, come cosa tangibile e inalienabile. Ma non è la visione della vita nel segno della quale stanno le democrazie moderne che può propiziare questa eventuale inversione di prospettive, mentre i tempi che forse si preparano malgrado l’euforia della “seconda rivoluzione industriale” rendono assai verosimile che un restare in piedi spiritualmente, un ritrovarsi anche di là da prove estreme e da estreme distruzioni sarà possibile solo a tale condizione. Come ultimo punto rileveremo che la situazione ora accennata potrebbe, in una certa misura, propiziare un ritorno allo stile che è stato proprio agli Stati guerrieri e che è andato perduto nell’epoca delle democrazie, delle rivoluzioni e del nazionalismo. Ad una tradizione guerriera e ancor ad una schietta tradizione militare è ignoto l’odio come base della guerra. Si può riconoscere la necessità di combattere e perfino di sterminare un altro popolo; ma non è detto che ciò debba associarsi ad odio, ira, animosità, disprezzo. Tutto questo, per un vero soldato è cosa degradante: per combattere, egli non ha bisogno di esser mosso da sentimenti talmente bassi, così non ha nemmeno bisogno di una esaltazione a base di propaganda, di fumosa retorica, di menzogne. Tutto questo è intervenuto col plebeicizzarsi della guerra, inquantochè ad uomini formati da una schietta aristocratica tradizione guerriera o militare è subentrata collettivisticamente la “nazione in armi”, ossia la massa reclutata indiscriminatamente dalla coscrizione universale, mentre, parallelamente, lo Stato tradizionale tramontava e sorgevano gli Stati nazionali mossi dalle passioni, dagli odii, dagli orgogli propri ad un collettivo. Per far marciare la massa, è necessario ubriacarla o ingannarla, con la conseguenza, appunto, di avvelenare la guerra con fattori passionali, ideologici, e propagandistici che le hanno conferito e le conferiscono il carattere più odioso e deprecabile. Di questo non avevano bisogno gli Stati tradizionali; essi non avevano bisogno di fabbricare un pathos sciovinista e quasi una psicosi per mobilitare le loro forze e per dar loro un “morale”. A tanto bastava il puro principio dell’imperiume il richiamo ai principi della fedeltà e dell’onore. Fini chiari, positivi, venivano posti per la guerra necessaria che, si può dire, veniva fatta a freddo, onde non lasciava nemmeno una scia di odio e di disprezzo fra i combattenti. Perciò si vede che anche a tale riguardo le prospettive si invertono: nell’epoca delle democrazie la guerra stessa si degrada, si accompagna ad una esasperazione e ad un radicalismo che l’epoca del presunto militarismo e degli “Stati militari” non ha conosciuto. In più, le guerre appaiono sempre più scatenate da fattori incontrollabili, appunto perché tali sono le passioni e gli interessi che predominano negli Stati democraticizzati, privi di un principio di pura sovranità. E l’inevitabile conseguenza di ciò è che i conflitti acquistano un carattere sempre più irrazionale, che essi conducono a quel che meno si era preveduto e voluto, che il loro tragico bilancio spesso si chiude in negativo, proprio nei termini di un “inutile macello” oppure di un ulteriore contributo al disordine universale. Ora, il tecnicizzarsi della guerra moderna da un lato, il crescente dissolversi del tessuto dei miti democratici dall’altro può avviare verso una purificazione della guerra in coloro che malgrado tutto non potranno evitarla, e ove corrispondenti fattori politici agiscono, non è escluso che l’effetto complessivo possa essere un parziale ritorno alla normalità. Qui non abbiamo ritenuto opportuno soffermarci, in particolare, sulla “guerra nucleare” per varie ragioni. Anzitutto sembra che l’arma termo-nucleare per abbastanza tempo avrà ancora una parte chiamata oggi di “deterrente” dissuadendo ognuno dei blocchi opposti dal prendere iniziative il cui rischio sarebbe in ogni caso grandissimo e preciso. In secondo luogo l’uso parziale di essa comporterà inevitabilmente anche, come complemento, una guerra condotta con le armi convenzionali in un complesso, pel quale le considerazioni svolte or ora mantengono, in genere, il loro valore. Il caso-limite di una guerra nucleare assoluta, al quale è spesso d’uso associare vedute apocalittiche, può essere tralasciato, perché suggellerebbe il destino di tutta una civiltà condannata, nell’economia cosmica. Nemmeno vi era da considerare, quì, l’idea di uno “Stato mondiale” o “universale” come alternativa: alternativa otopica prima del momento in cui, dopo ulteriori crolli, il completo livellamento dell’umanità sia diventato un fatto compiuto. (1 E del resto significativo che sia in Inghilterra che negli Stati Uniti fino a poco tempo fa non esisteva la coscrizione obbligatoria; le forze armate erano costituite da volontari, cui si corrispondeva un soldo non indifferente. Così si provvedeva a che il corpo propriamente borghese e mercantile della nazione non avesse a che fare col mestiere e la disciplina delle armi. (1 Soprattutto nella citata Rivolta contro il mondo moderno. (2 Nella stessa dottrina cristiana di un S. AGOSTINO (De civ. Dei. XV. 5) una veduta del genere circa la giusta guerra si conserva abbastanza distintamente: “Proficientes autem nondunque perfect ita (pugnare) possunt, ut homus quisque ex ea parte pugnet contra alterum, qua etiam contra semet ipsum; et in uno quippe nomine caro concupiscit adversus spiiritum adversus carnem”. (1 Del resto, il mondo antico è, in genere, ricco di esempi di Stati nei quali nelle gerarchie più alto l’elemento politico e quello militare si univano: da Roma antica fino alla Cina. Ciò è rimasto nelle monarchie europee nei riguardi del Sovrano, che di solito, capo supremo politico, rivestiva anche la qualità di comandante in capo delle forze armate. (2 In base a tale spirito, si sa che in diversi Stati tradizionali europei i funzionari dello Stato vestivano una uniforme, come i soldati.
Posted on: Sat, 16 Nov 2013 22:21:15 +0000

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