“Sì, sì, ti giuro!” “E neanche del campionato di calcio in - TopicsExpress



          

“Sì, sì, ti giuro!” “E neanche del campionato di calcio in senso lato?” “Assolutamente! Definitivamente finito! Niente più giochi con la palla!” “Non c’è che una soluzione”, aggiunsi, rassegnato. “Proveremo a scappare dalla porta che hanno demolito per far passare il Cavallo. La stessa dalla quale, ahimè, entreranno i Greci. Però, se saremo fortunati nello scegliere i tempi, potremmo pure farcela. Là fuori, rivolta a ovest, ci dev’essere una strada lastricata che attraversa interamente la piana dello Scamandro, e si dirige verso la baia di Beşika: il mare, la nostra salvezza.” “Ma non c’è proprio niente di meglio?” squittì Lomartire, terrorizzato. “No! Vuoi restare qui ad aspettare di essere massacrato come tutti questi altri disgraziati?” sbottai, furente, e con quei due tapini trotterellanti al mio fianco: Anselmo che recitava il rosario, e Cassandra che, anziché strapparsi le proprie vesti, continuava a ridurre in brandelli quelle del mio amico, mi avviai verso quello che paventavo, sarebbe stato un infausto destino. Ormai era notte fonda. Le vie erano deserte. I baccanali cessati da un pezzo. I troiani, dopo aver gozzovigliato, erano ubriachi fradici. C’era chi russava sonoramente. In lontananza si udiva qualcuno che cantava a squarciagola. Nello spiazzo antistante la porta di sud-ovest, maestoso, svettava il Cavallo. Cassandra aveva iniziato a strizzarsi i seni e, dopo aver quasi denudato lo spiritato commercialista, senza smettere un solo attimo di sbraitare le sue sconclusionate litanie, cercava a tutti i costi d’infilarglieli negli occhi. “Ma quella non è…?” mormorò Anselmo, indicandomi un’ombra che si aggirava, furtiva, attorno al grottesco simulacro. “Elena!” esclamai, con ardore. “E smettila di stritolarmi il braccio!” “Ma che fa… parla col Cavallo?” proferì Lomartire. Dimentico dell’imminente tragedia, io ero già accanto alla scombussolatrice dei miei più viscerali umori. “Per tutti gli dei dell’Olimpo!” trasalì la perpulchra, cessando di declamare tutta una serie di nomi. “Mi hai fatto paura!” “Son venuto a rapirti!” vociai, con enfasi, cadendo in ginocchio. “Non vedo Astianassa”, soggiunse la mia nemesi, appressandomisi rapidamente e distruggendo così ogni pathos. “Allora dobbiamo sbrigarci”, disse Elèni, raccogliendo una torcia e avviandosi celermente su per i gradini del prospiciente muro di cinta. “Aspettami. Mi resta ancora una cosa da fare.” “Se è proprio necessario”, pronunciai, sommesso. “Non andrà…?” fece il commercialista. “A fare segnali luminosi ai nemici appostati là fuori”, ammisi a malincuore. “Agamennone e Menelao saranno già in attesa.” “Ma non ha deciso per l’ennesima fuga d’amore con noi… ehm, con te?” insistette quello, caparbio. “Perché rendere la cosa più complicata?” “Beh, cerca di capire, Elena è una donna confusa; al centro di avvenimenti più grandi di lei”, provai a scusarla. “Causati da lei, vorrai dire”, replicò il maledetto interista, sprezzante. “Ehm… sì, però qui siamo a Troia…” annaspai, poco convinto. “Quindi è una troiona”, concluse il cialtrone. “Non ti permetto!” sbraitai, rosso di collera. “La mia fidanzat…” Uno scatto, seguito da un sordo cigolio proveniente dal ventre del Cavallo, interruppe sul nascere il pericoloso alterco, impedendo tra l’altro che lo stesso da verbale si tramutasse in manesco. “Cacchio, stanno uscendo i Greci!” esclamai, vedendo un portello che si apriva e una scaletta a pioli scivolare verso terra. “Non mi aspettavo lo facessero così presto!” “Madonnina, digli che siamo loro alleati!” prese a strepitare istericamente Anselmo. “Sì, sì, la tua Elena è la donna più onesta di tutti i tempi!” “Ecco i primi due bastardi!” gridò una voce, mentre un uomo dalla folta capigliatura sporgeva il suo sguardo truce dall’apertura. “Luridi figli di cane!” recitò un altro individuo, cominciando a calarsi minacciosamente giù. “Ammazzateli come scarafaggi!” sbraitò un terzo, intanto che una dozzina di compagni armati di tutto punto erano saltati agilmente a terra e si dirigevano verso di noi. “No, no, vi prego… non uccideteci, per favore! Lui è pure il fidanzato di Elena!” iniziò a supplicare Lomartire, bianco cadaverico. “Sta’ zitto, disgraziato!” borbottai, cercando di tacitarlo. “Cos’ha detto il tuo amico? Ho sentito che nominava Elèni!” ringhiò quello che doveva essere il capo del feroce drappello. “No, niente, diceva che è giusto che torni da suo marito Menelao”, risposi in tutta fretta. “La perpul… ehm, lei stessa ha manifestato ripetutamente questo desiderio.” “E voi come fate a saperlo? Allora avete avuto rapporti intimi con la regina!” urlò il greco, schiumante rabbia. “Uccideteli!” “Un momento…!” “Madonnina!” implorammo all’unisono, mentre il gruppo ferino, sguainate le armi, ci piombava addosso. CAPITOLO 8 “A tteeento!” gridai, riuscendo per il rotto della cuffia ad acciuffare Anselmo e a rotolare fin sul ciglio della strada. Contemporaneamente il cavallo che stava per travolgerci scartò dall’altro lato, s’impennò e, disarcionato l’atterrito cavaliere che lo montava, continuò la sua folle corsa, sparendo ben presto in un folto boschetto. “Deus… mater semper certa est, pater numquam!” iniziò a sacramentare il tizio che ci era finito addosso sul selciato e ci guardava con aria torva. “Madonnina, c’infilzano!” vagì Lomartire. “E lui chi è? Neottolemo?” “Ma che Neottolemo d’Egitto! Non vedi che questo poveretto, finito a gambe all’aria, è pure effeminato. E poi il quadrupede che abbiamo fatto spaventare con la nostra comparsa improvvisa non mi è sembrato di legno come il Cavallo di Troia”, risposi, tastandomi un bernoccolo. “Siamo stati risucchiati ancora una volta nel vortice temporale.” “Stulti plebei!” riprese intanto il disgraziato, affrettandosi a recuperare una specie di cappelliera che era finita a pochi metri di distanza. “Ma che lingua parla?” fece il commercialista. “Quid Romae facetis?” insistette l’altro. “Io proprio non lo capisco”, seguitò Anselmo, guardandolo stranito. “Respunde!” cominciò ad accalorarsi l’uomo. “Minus habens!” “Già… sostiene che sei duro di comprendonio. E’ latino, sai”, tradussi. “Come si dice ‘stronzo’ nella lingua dell’antica Roma?” mi chiese l’interista, offeso. “Ehm, salve! Quo vadis?” articolai, dopo aver deciso di soprassedere per il momento sulla richiesta del mio illetterato amico. “Fuge quaerere!” esclamò il bizzarro individuo. “Va bè ‘non cercar di sapere’, ma allora che possiamo fare per te?” replicai, leggermente spazientito. “Mi spiace che il tuo cavallo si sia spaventato per la nostra… ehm, brusca apparizione. “Uter vestrum est celerior?” domandò il romano, che zoppicava vistosamente. “‘Chi dei due è più veloce’…? E che ti frega?” replicai, perplesso. “Per colpa vostra il cavallo è sparito, mancano ancora cinque chilometri per l’Urbe, e io sono azzoppato”, proseguì l’uomo. “Dovete assolutamente aiutarmi, consegnando questo pacco all’imperatore.” “All’imperatore…?” esclamai, allibito. “All’imperatore di Roma? Okay… ehm, va bene. Per noi sarà un onore.” “Immediate!” formulò quello. “Il sovrano è già in attesa.” “Bè, allora noi andremmo… ave!” recitai e, consegnata la ‘cappelliera’ a un sempre più confuso Lomartire, ci mettemmo doverosamente in marcia. “Ma sei impazzito? Vuoi recapitare veramente questo stupido scatolone a Claudio e a quella stronza di Messalina?” esclamò il commercialista.”Cacchio, hai già dimenticato il cocchio?” “Non dire cacchiate!” reagii, lanciandogli uno sguardo di riprovazione. “Dal primo imperatore, Ottaviano Augusto, a Romolo Augustolo, l’ultimo deposto nel quattrocento-settantasei, si sono avvicendati innumerevoli sovrani, e noi chissà in quale anno siamo capitati!” “Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio,Tarquinio il Superbo! E so anche gli Orazi e i Curiazi!” noverò Anselmo, con aria di sfida. “E’ inutile che mi guardi con commiserazione, non sono ignorante, come credi!” “Muovi il culo, etruscologo, e stà attento a non schiacciare questo prezioso copricapo dell’imperatore”, sospirai, misericorde. I cinque chilometri prospettateci dal romano sembrava non dovessero finire mai. Stremati, arrancavamo sotto un sole cocente, che ci martellava senza pietà. Il paesaggio tutt’attorno continuava a essere monotonamente campestre, e in giro non si vedeva anima viva. Unico, piacevole interludio ai nostri passi strascicati sul selciato, era la voce del Lomartire che, a intervalli regolari di trenta secondi, si lamentava dell’eccessivo peso del fardello che era costretto a trasportare. “Deo gratias, una fattoria!” esclamai, con le ultime forze rimastemi. “Almeno potremo dissetarci!” “Io metterei anche qualcosa sotto i denti”, aggiunse il commercialista, cercando di coprirsi alla meglio. “E non disdegnerei neppure un vestito nuovo.” Attiguo a quella che sembrava più una residenza di campagna che una vera e propria azienda agricola, c’era un immenso capannone, probabilmente destinato agli animali da allevamento. Un carro, con al giogo una coppia di sonnacchiosi bovini, stazionava accanto all’ampio portone. Una catena di volenterosi operai era impegnata, in un incessante passamano, a caricare il pianale con grossi orci colmi di latte. “Ehi, voi due!” vociò uno del gruppo. “Cosa ci fate lì impalati! Venite ad aiutarci!” “Guardi che noi…” cercò di protestare Lomartire, che, pur senza aver capito un’acca, si era subito risentito per il tono perentorio dell’ordine. “Su, bello, t’insegno io a spremere il latte dalle mammelle”, interloquì un individuo dal sesso non ben definito, che sembrava dirigere l’intera operazione. “In tutto l’Impero non c’è nessuno che superi Aloto nella mungitura.” “Veramente siamo attesi dall’imperatore”, enunciai, con aria di superiorità”. Dobbiamo consegnargli questo pacco.” “Non verrete mica da Pandataria…?” esclamò lo stesso tizio, portandosi leziosamente la mano alla bocca. “Che strano, a parte centinaia e centinaia di muli, non vedo mucche; né pecore o capre, qua dentro”, disse Anselmo, che si era affacciato sulla soglia del vasto locale. “In effetti sono asini. Anzi, a giudicare dalle graziose bestioline che se ne stanno accucciate sotto i loro ventri, direi asine che hanno appena partorito”, rimuginai, perplesso. “Uuuhm… e anche quei nomi, Aloto e Pandataria, mi dicono qualcosa.” “Beh, andate allora! Non vorrete fare aspettare l’Augusto sovrano!” soggiunse intanto la sdolcinata creatura. “Vuoi che gli chieda se ci dà prima un goccio di latte?” domandai al mio sempre più timoroso amico. “Per carità!” rispose quello, tirandomi subito per la manica. “Di pervertito mi basti tu!” Con le ali ai piedi, per allontanarci il più in fretta possibile dall’equivoco figuro, non tardammo a raggiungere l’Urbe. Roma imperiale, con la sua ostentata grandiosità, ci lasciò ancora una volta senza parole. Intimiditi dall’opulenza dei monumenti, cominciammo a vagare per le belle strade lastricate. Una quantità inimmaginabile di alacri cittadini ci sfilava accanto, i capi di vestiario dalle fogge più diverse. S’individuavano esponenti dell’aristocrazia e gente comune; quelli che facevano parte dell’apparato governativo della capitale e militari; consoli, senatori, pretoriani, sacerdoti, liberti di corte. Tutti sembravano impegnati in ferventi attività. “Pensa al raro privilegio che abbiamo”, esordii, irraggiando pathos da tutti i pori. “Gli altri esseri umani della nostra epoca possono avere solo una pallida idea di tutto questo, e unicamente attraverso qualche stupido film. Noi lo stiamo vivendo di persona.” “Uuuhm, mi sarei accontentato volentieri di una comoda poltrona al cinema; magari sgranocchiando popcorn”, rispose quello, indifferente alla mia lirica estrinsecazione. “E, ci scommetto, con l’auricolare della radiolina in funzione, per seguire contemporaneamente le partite dell’Inter”, aggiunsi, caustico. “Ah, questo sì”, specificò l’irrecuperabile esaltato. “Solo le trasferte, però. Per quelle giocate in casa sarei stato, come sempre, nel tempio di S. Siro.” “Sordo! Sei sordo a ogni mio anelito!” sbottai, rassegnato. “Guarda, se non sbaglio quello è il Circo Massimo, tutt’intero… cioè non le rovine”, notò il commercialista, particolarmente giulivo. “Su,entriamo, magari c’è una partita.” “Citrullo di un citrullo, non c’era mica questo gioco del cacchio nell’antica Roma!” lo ripresi, inferocito. “E poi hai già dimenticato il nostro nobile scopo? Che è, adesso il cappello non ti pesa più?” “E dai, ti prego, solo cinque minuti. Diamo una capatina”, insistette quello che, completamente rincoglionito, ormai fantasticava a ruota libera di trovare un’altra squadra del cuore, magari allenata dal bisbistrisavalo di Mourinho, con la quale potersi esaltare per i penalty trasformati dai vari Diegum Militum dell’epoca. Non mi restò che cedere. Per fortuna nessuno ci chiese il biglietto – chissà, forse i ludi circensi a quell’epoca non erano ancora affetti dall’esoso balzello vessatorio. “E che è, Sanremo?” esclamò Lomartire alla vista di un bellimbusto che cantava a squarciagola nell’arena. “Guarda, sta salendo a bordo di quel cocchio tutto d’oro.” Intanto il tizio, senza neppure aver concluso la sua performance canora, trasfigurato dalla propria auto-esaltazione, era partito alla carica. “Dio ce ne liberi, è proprio un pazzo furioso!” continuò Anselmo. “‘Pazzo furioso’…? Demens furiosus…? Intervenne subito, con tono bellicoso, un esagitato spettatore che ci stava accanto. “Quis in furore est…?” “Nooo, il mio amico voleva dire che il cantante… ehm, quel magnifico atleta laggiù sta suscitando un entusiasmo pazzesco”, mi precipitai a correggere, in affanno. “Aaah, bene, bene!” fece l’uomo, facendo sparire, per fortuna, il cipiglio minaccioso. “D’altronde Nero Claudius Caesar Drusus Germanicus è il più grande!” “Nerone?” esclamai, rimanendo a bocca aperta. “L’augusto figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore! Il protetto della dea Demetra! Colui che sta seduto sul trono per suo provvidenziale intervento, e che garantisce l’accordo, la giustizia e la pace!” prese ad acclamare il romano, che sicuramente aveva scambiato la mia manifestazione di sorpresa per estrinsecazione laudativa. “Non mi dire che quel coglione che sta sfiancando il cavallo nell’arena è Ner…” eruppe con la solita intempestività Lomartire. “Ssst, disgraziato!” sibilai, sbiancato, non mancando di assestargli una pedata negli stinchi. “Vuoi farci fucilare?” “Ma i romani non dovrebbero mica avere i moschetti”, replicò, con aria offesa, quell’anima candida. “Colione…? Quis colione est…?” ripeteva intanto il solito fan dell’imperatore. “Eeehm… si è fatto tardi… noi ora andremmo”, feci, trascinandomi dietro quella mina vacante del commercialista. “Bello spettacolo! Complimenti per l’organizzazione!” “Ma perché sei voluto scappare così? Magari…” prese a lamentarsi l’eterno scontento. “Non è stato ancora inventato il gioco del calcio, testa di legno!” sbottai, incavolato. “E chiudila ogni tanto quella tua boccaccia! Ci farai finire sulla sedia elettrica!” “Dici che questi potrebbero avere l’elettricità?” chiese Anselmo, preoccupato. “Per tutti gli stadi di calcio!” urlai, senza ritegno. “Non bestemmiare!” replicò il tapino, ritraendosi dietro la ‘cappelliera’. “Okay, apri quel cacchio di pacco!” gli ingiunsi, avanzando minacciosamente. “Ti renderai conto del perché sono improvvisamente nervoso.” “Ma non dovremmo consegnarlo integro all’imp…” obiettò bastian contrario. “Apri!” intimai, con tono perentorio. Remissivo, suo malgrado, il Nostro si mise all’opera. Dopo un quarto d’ora di estenuanti manovre, che avrebbero sfinito un santone indù in meditazione, quel magnifico professionista, abilitato a sbrogliare i più intricati casi di diritto commerciale, riuscendo finalmente a liberarsi dall’aggrovigliamento di cordame con il quale si era graziosamente cinto busto e collo, venne a capo della situazione e, sudato, ma soddisfatto,tolse il coperchio al contenitore. “Madonnina! E questa cos’è?” grido, orripilato, lasciando cadere per terra la ‘cappelliera’. “Ti presento Ottavia, la povera moglie di Nerone; esiliata a Pandataria, l’odierna isola di Ventotene; uccisa e decapitata per ordine dell’imperatore, su istigazione di Poppea”, proferii, indicando la testa che era rotolata sul selciato. “Po…ppea?” balbettò Lomartire, bianco come un cencio. “Sì, in effetti è proprio a lei che dev’essere mostrata la testa”, ripresi, mentre cercavo di governare le emozioni. “Ed ecco a cosa servivano tutte quelle asine che avevano appena partorito.” “Allora è Poppea, quella del latte…” biascicò Anselmo, sempre più scosso. “E che pensavi, quella delle poppe?” replicai, però senza più infierire. “Questa stronza fa mungere ogni giorno cinquecento asine per il suo bagnetto personale! Pare faccia bene alla pelle!” “E ora…?” fece il commercialista. “Beh, la testa in ogni caso dobbiamo consegnarla. Non vorrai creare un paradosso temporale”, risposi. “Poi ci allontaneremo velocemente, mettendo quante più leghe possibili tra noi e questa donna spietata e quel despota demente del marito.” “Non potremmo più semplicemente spedirgliela?” propose Lomartire, non particolarmente allettato. “Ma certo, caro! Che bella idea!” replicai, caustico. “Cerchiamo subito un ufficio postale. Una testa per pacco raccomandato non dovrebbe costarci che pochi sesterzi.” “Sì, però se le spese di spedizione sono a carico del destinatario…” insistette l’anima candida. “Ma và in biga! Và!” sbottai, esasperato. “Io però non voglio finire arrosto nell’incendio che quel pazzo ha sicuramente iniziato ad appiccare a tutta la città”, non demorse il mio zitellesco amico, sempre più querulo. “La nota vicenda storica è del sessantaquattro. Manca un anno e mezzo”, mi affrettai a puntualizzare, sbuffando. “Tranquillo, per adesso puoi solo essere scorticato vivo.” “Aaah… certo che averti accanto è per me di grande conforto”, gemette quello, affrettandosi a coprire quanta più epidermide possibile coi miseri brandelli delle succinte vesti. “Stronzo di uno stronzo!” Un po’ spingendolo, un po’ trascinandolo, riuscii comunque a farlo camminare. Mezz’ora più tardi, quando Anselmo aveva appena finito di recitare il rosario, varcammo il portale di ingresso del maestoso Palazzo imperiale. “Dove credete di andare, voi due!” vociò un tizio, sbucato da chissà dove, lanciandoci uno sguardo truce. “Dobbiamo consegnare la tes… ehm, questo pacco all’imperatore”, mi premurai di spiegare. “Tranquillo, che non è una bomba”, cercò subito di aiutarmi (?) il più serafico dei commercialisti. “Ma in che lingua parla questo bifolco?” fece il sinistro personaggio. “Zitto, cazzo!” sibilai, col cuore in gola. “Eeehm… già, circasso. Sì, è nativo della Circassia, la repubblica autonoma della Federazione Russa, nella Caucasia occidentale.” “Ignoro”, rispose l’uomo, continuando a trafiggerci col suo bieco malpiglio. “E in quanto al desiato involto, è a Sabina Poppea che dovete recapitarlo.” “Non potremmo lasciarlo a lei?” buttai là, speranzoso. “Sa, avremmo una certa premura…” “Impossibile, l’imperatrice vorrà conoscere tutti i particolari”, fece quello. “‘I particolari’?” ripetei, sentendomi mancare. “Già. Seguitemi!” “Dove stiamo andando?” farfugliò Lomartire. “Fatti coraggio. Se ci va bene, sarai privato solo dell’inane ammennicolo che ti porti appresso sin dalla nascita”, mi chinai a sussurrargli. “Madonnina!” esclamò il meschino, riprendendo in tutta fretta la recita dei misteri dolorosi. Il brutto ceffo intanto avanzava, marziale, sempre tallonandoci strettamente. Quando pensavamo che quel calvario non dovesse finire più, fummo intercettati da un segaligno individuo, che si pose subito in un rigido attenti. “Ave, Soforio Tigellino!” interloquì, riguardoso. “Sei atteso al Pretorio.” “Ave, Aniceto!” rispose il nostro bizzoso accompagnatore. “Maledizione, non mi danno requie quegli inetti! Occupati tu dei due viaggiatori. Devono consegnare un importantissimo pacco all’imperatrice.” “Cacchio, di male in peggio”, mi accostai ad Anselmo. “Se non è un caso di omonimia, stiamo avendo l’onore di essere scortati dal liberto che ha ucciso Agrippina, la madre di Nerone.” “Porca putt…” ansimò il commercialista, provando a nascondersi dietro di me. “Guarda che io faccio volentieri a meno dei tuoi sfoggi di erudizione.” Mentre accompagnavo con uno scappellotto il mio benevolo compatimento, l’apparizione di un’altra figura, femminile questa volta, m’impedì di chiarirgli oltre ogni dubbio quanto invece dovesse ritenersi fortunato ad avere accanto un amico talmente acculturato. “Oooh, Locusta, la nostra esperta di pozioni magiche!” esordì l’ex-schiavo, sdegnoso. “Pozioni? Bevande medicamentose!” replicò la donna, altera, cercando subito di allontanarsi. “Porta i due corrieri da Sabina Poppea!” esclamò allora il romano, con aria di sfida. “L’ordine viene dal prefetto Sofonio Tigellino in persona!” “Cavoli! Cavoli! Stracavoli!” mormorai, a mezza bocca, intanto che venivamo presi in consegna dalle nuova arrivata. “Chi… chi è?” chiese Lomartire, in deroga al suo recente non voler più sapere. “Quell’arrogante figlio di puttana mi sta rovinando la giornata!” inveì intanto la tizia. “Sarà il caso che prepari un infuso, per calmarmi. E a voi farò una bella pozione.” “Nooo, grazie… non si disturbi… ehm, siamo astemi”, balbettai, in affanno. “Maledizione, i mortiferi veleni non hanno segreti per questa fattucchiera!” “Peccato, vi avrei fatto provare volentieri il mio ultimo infuso. Mmmh, è buono da morire”, aggiunse quella, dischiudendo una porta riccamente decorata. “Beh, sarà per un’altra volta. Sù, aspettatemi qua. Avverto l’imperatrice.” “Infuso, un cacchio!” sbottai, furente. “Ora che abbiamo ottemperato al nostro compito, recapitando il raccapricciante fardello, questa strega vuole avvelenarci!” “Magari era solo gentile, e voleva offrirci una tazza di tè”, provò a replicare Anselmo. “Sì, e io sono madre Teresa di Calcutta!” aggiunsi, guardandolo, torvo. Rimandando a occasioni leggermente meno stressanti ogni disputa dialettica, avevamo cominciato a rinculare con cautela, pronti a mettere in atto il sensatissimo proposito di darcela a gambe, quando fummo bloccati da una voce argentina, che ci ordinava di entrare. Non ci restò che varcare la soglia e penetrare nella regale dimora di quella donna che ‘possedeva tutto, ma non un’anima pura’. Poppea, occhi cerulei, incarnato avorio, curve da far perdere il fiato, era in piedi, proprio di fronte a noi. Ci studiò attentamente, quindi esordì, imperiosa: “Il mio regalo!” Dopo una gomitata, fu sufficiente solo un calcio negli stinchi per sveltire il mio inseparabile compagno che, stralunato, continuava a tenersi stretto quell’ambiguo involto. “Bene!” fece l’imperatrice, raggiante. “Locusta, offri una delle tue rinvigorenti tisane a questi due stanchi corrieri.” “Oh no!” mi precipitai a rispondere. “Ehm… volevo dire grazie. Non si preoccupi, Augusta. Siamo baldi e giovani… già, pieni di energia.” “Come volete”, continuò quella che, liberato con destrezza il coperchio della ‘cappelliera’, ne rimirava, gongolante, il macabro contenuto. “Seguitemi, oggi il mio bagno sarà doppiamente appagante. Voglio che mi raccontiate tutti i particolari.” Prima ancora di penetrare in una specie di alcova fittamente drappeggiata, sentimmo l’odore dolciastro del latte, che permeava tutto l’ambiente. Una vasca di alabastro, già colma del bianco liquido tanto amato dalla sovrana, era incastonata nel centro della stanza. Messalina indugiò un po’, passandoci vicendevolmente in rassegna; poi, con gli occhi che sprizzavano fuoco, prese a scostare con lentezza esasperante la preziosa tunica; temporeggiò ancora, accarezzandosi con voluttà il seno; quindi fece scivolare giù le vesti, si denudò completamente e, con movimento felino, si allungò in quel liquido candido come la sua stessa pelle. “Su, cominciate!” disse, rigirandosi mollemente e consentendo prima a un turgido capezzolo e poi all’altro di fare capolino. “Ehm… a fare cosa?” cianciai, a corto di ossigeno. Il commercialista intanto si stava ripassando tutti i suoni onomatopeici (conosciuti e non). “Ma a raccontarmi come avete ucciso quella lurida cagna!” esclamò l’imperatrice, tirando fuori una gamba e schizzandomi mezzo litro di latte di asina negli occhi. “Chi dei due l’ha decapitata?” “Aaah, beh…” ripresi, sullo stesso tono di prima. “Avevo capito male.” “E allora?” sbuffò lei che, per l’impazienza, adesso si era messa ginocchioni, facendo affiorare (ahimè!) le superbe chiappe. “Eeeh… la cosa non è stata molto chiara”, annaspai, cercando la giusta ispirazione… Ecco, dopo una lotta furibonda l’abbiamo immobilizzata…” “Ottavia? Una donna sola?” osservò l’imperatrice, stupita. “Ah, ma si difendeva come una pantera”, spiegai, convinto. “Continua”, fece quella. “Beh, ricordo che avevamo cominciato a legarla con delle cinghie, quando la maledetta si è impossessata del gladio…” “Si è mozzata il capo da sola?” m’interruppe ancora la sovrana. “Mmmh… non proprio”, m’imbrogliai, improvvisamente a corto del consueto afflato. “In effetti il mio valoroso compagno ha preso subito le redini della situazione.” “Quindi è stato lui a tagliarle la testa…” osservò Poppea. “Insomma… per certi versi”, cincischiai, la gola arida. “Peccato che non parla la sua lingua, altrimenti lui si che potrebbe raccontarle per filo e per segno come si sono svolti i fatti.” “Basta così! Mi stai solo facendo perdere tempo!” sbottò l’imperatrice. “Digli d’iniziare. Vorrà dire che mi tradurrai, man mano che riferisce l’accaduto.” Visto che peggio di come mi ero incasinato non potevo certo ridurmi, spiegai velocemente la situazione al mio prode scudiero e gli passai volentieri la patata bollente. “Ma… ma… ma io non ho mica tagliato la testa a nessuno”, cominciò a farfugliare quello, ritraendosi istintivamente da me. “Atteeento!” gridai, orripilato. Troppo tardi: il disgraziato, sempre rinculando, aveva inavvertitamente superato il bordo della vasca, rovinando nella ‘jacuzzi’ imperiale e sprofondando in quell’immacolato – fino a quel momento – latte d’asina. Emerso, dibattendosi come un forsennato, forse per non annegare, si era poi aggrovigliato disperatamente a Poppea. Devo dire però che le urla belluine dell’imperatrice lo fecero schizzar via dalla vasca ancor più repentinamente di come ci era finito dentro. “Fai cambiare quest’imbecille e poi tornate subito qui!” intimò la sovrana. “Esigo che mi facciate un resoconto completo della vostra missione a Pandataria, se non volete che la vostra testa tenga compagnia a quella di Ottavia!” Deferenti, abbandonammo in gran premura la ‘spa’ della pericolosissima donna. “Com’è bagnato, poverino! Volete una tisana?” Locusta, appena fuori il boudoir, ci sorprese con la sua voce mielosa. “Per carità!” esclamai, arretrando e calpestando un piede all’imbambolato commercialista. “Nerone ha saputo del vostro arrivo e vuole conoscervi”, recitò la fattucchiera, palesemente offesa per l’iterato diniego. Sconsolati, non ci restò che seguirla. Lucio Domizio Nerone cantava, accompagnandosi con una specie di cetra. Dopo averci fatto rimanere una buona mezz’ora sull’attenti, a sorbirci le sue demenziali performance canoro-musicali, mise da parte lo strumento e, con rudezza, c’invitò ad avanzare. “Eccezionale! Che sensibilità! Un’esecuzione impeccabile!” presi a incensarlo, non cessando di sperticarmi in lodi. “Uuuhm, riesco anche a fare di meglio”, proclamò l’Augusto, gonfiandosi come un pavone. “Tutte le nove figlie di Zeus e Mnemosine staranno plaudendo!” continuai, facendomi venire le lacrime agli occhi. “Ma il tuo compagno è sordo?” chiese quell’ambizioso esibizionista. “Può sembrare, vero?” risposi, maledicendo il ‘muto di Milano’. “In effetti ha apprezzato moltissimo anche lui la sua esibizione. Il fatto è che viene da un paese lontano, e parla un’altra lingua. E’ per questo che non ha potuto manifestarle la sua sconfinata ammirazione. Già, lui è un famosissimo commercial… ehm, urbanista.” “Uuhm… perché no!” esclamò Nerone, sfregandosi, con contentezza, le mani. “Penso che mi avvarrò dei suoi servigi per ricostruire l’Urbe! Magari, farò erigere per me una domus aurea! Resterete miei ospiti per tutto il periodo nel Palazzo!” “Veramente non vorremmo disturbare…” provai rispettosamente a declinare. “La mia ospitalità non si può rifiutare!” dichiarò l’imperatore, perentorio. “Già… certo”, convenni, più che allarmato. “Ai suoi ordini!” “Ora andate a prendere la testa di quella sgualdrina di Ottavia. Locusta mi ha detto che l’avete consegnata a Poppea. Voglio vederla anch’io”, disse il despota. “Fuori troverete il mio fedele liberto Epafrodito, che vi accompagnerà.” Preso per mano Anselmo, mi trattenni a stendo dall’uscire a precipizio. Purtroppo mi toccò l’ingrato compito di renderlo edotto. “Oh, porca… allora è stata la mia comparsa a fargli balenare l’idea d’incendiare Roma!” esclamò quello, rabbrividendo. “Cacchio, mi raccomando, non dirlo a nessuno a Milano, altrimenti sono sputtanato.” “‘A Milano’?” feci, guardandolo, con preoccupazione. “Anche volendo, non credo che per i prossimi millenni ne avrò la possibilità.” “Eppure i libri, ch’io sappia, non ne parlano… allora la paternità resta a Nerone”, continuò Lomartire, che s’immaginava già di fronte alla corte marziale. “Chissà… forse sono salvo.” “Capisco che in questi ultimi tempi il ritornello è sempre lo stesso, ma mi preme farti sapere che, bando al tuo giusto senso di colpa, dobbiamo scappare, e con una certa sollecitudine”, gli comunicai, coscienzioso. “Veramente sei stato tu a dire a Nerone che ero un urbanista”, mi rinfacciò quel disconoscente individuo. “Famosissimo, se è per quello”, precisai, con sussiego. “Io ci tengo a te.” “Ma và a prendertela…!” sbottò il mio rorido amico. “E d’ora in poi mi sentirei più tranquillo se il tuo apprezzamento nei miei riguardi scemasse sensibilmente.” “Eeehm… quali sono le disposizioni di Nero Claudio Caesar Drusus Germanicus?” c’interruppe dopo un po’ un allampanato individuo, che non ci aveva perso di vista un solo attimo da quando avevamo abbandonato in fretta e furia gli appartamenti dell’imperatore. “E questo chi è, l’ermafrodito?” chiese il commercialista, che continuava a ‘trasudare’ latte. “Per servirvi!” rispose l’uomo, che per nostra fortuna non doveva aver colto la storpiatura del suo nome. “Grazie, libertus, sei veramente gentile; ma non ti scomodare, io e il mio amico facciamo solo due passi”, formulai con nonchalance. “Ah, non posso”, replicò il tizio, contegnoso. “Il mio compito è provvedere a ogni necessità degli illustri ospiti.” “Cos’ha detto l’invertito?” intervenne Anselmo. “Ma porc… splendido!” esclamai, ignorando il lattifero commercialista e ricacciando giù la bile. Non avendo altra scelta, c’incamminammo, questa volta a ritroso, lungo l’infinita serie di saloni che ci avrebbe riportato da Poppea. Passavo in rassegna i piani di fuga più fantasiosi, e li scartavo uno dopo l’altro. Quella suocera del mio amico mi trotterellava accanto e mi ossessionava coi suoi sensi di colpa, ritenendosi responsabile della caduta dell’Impero romano e del ritardo dell’unità d’Italia, e soprattutto, della nascita della ‘Lazio’ e della ‘Roma’, acerrime nemiche della sua Inter. Epafrodito, pur non avendo sulla testa l’organo adesivo, era appiccicato a noi come una remora. Due uomini, vestiti con particolare ricercatezza, sostavano non lontano dagli appartamenti dell’imperatrice. Al nostro sopraggiungere, il loro appartato confabulare cessò di botto. “Caius Calpurnius Piso! Petronius Arbiter!” declamò il nostro accompagnatore, prostrandosi con estrema devozione. “Ave!” rispose il primo. Il secondo fece un cenno con la testa. Entrambi si mossero, per allontanarsi. “Eeehm… scusate, signori”, articolai, grato al fato per il fortunoso incontro. “Ma ho l’onore di avere davanti l’esponente più in vista dell’aristocrazia senatoria romana, e il raffinato seguace della dottrina epicurea, l’autore del ‘Satyricon’?” “In persona”, rispose, visibilmente soddisfatto, l’uomo politico. “Incredibile, se non ne avessi dipinto io stesso i tratti fisici, non ci crederei!” aggiunse lo scrittore. Assomigliate come una goccia d’acqua, anzi come due gocce d’acqua, a Encolpio e Ascilto, i protagonisti del mio romanzo!” “Perbacco, hai ragione!” esclamò il senatore. “La coppia omosessuale!” “Uuuhm, mi permetto di dissentire, sa. Ho letto con piacere più e più volte la sua arguta parodia del romanzo greco d’amore e d’avventura: la rassomiglianza la trovo più nel mio amico”, mi sentii di obiettare. “In ogni caso ci terrei a poter scambiare due chiacchiere con lor signori su un problema che mi sta molto a cuore… un problema comune.” “Liberto, hai sentito! Lasciaci soli! Pigliamo noi in custodia gli omosess… i due stranieri!” proferì Pisone. “Riprenderete il vostro giro dopo che avremo parlato!” Epafrodito si genuflesse, con riverenza, e, deo gratias!, si allontanò. “Alleluia, abbiamo trovato degli alleati!” mi chinai a sussurrare ad Anselmo. “Siamo incappati in due che hanno avuto una parte importante nella congiura ordita contro Nerone nel sessantacinque.” “E come è andata poi?” chiese quel curioso. “Beh… una volta che questo venne scoperto, il senatore si uccise”, gli comunicai, laconico. “Ah! E l’altro?” insistette il demonio. “Il poeta scrittore ricevette l’ordine di suicidarsi”, riposi frettolosamente. “Certo che come reclutatore di alleati fai proprio schifo”, recitò Lomartire, acido più di uno yogurt. “Non potremmo fare da soli?” “Ssst!” provai a tacitarlo. “Non vorrai che pensino che stiamo tramando qualche cosa? Che vogliamo fare il doppiogioco? A noi non interessa come andrà a finire la loro congiura. Basta che ci aiutino a scappare via.” “Ma che strana lingua parlano questi!” enunciò Pisone. “Barbara!” rimarcò Petronio, arricciando il naso, disgustato. “Puah, piena di fonemi così rozzi!” “E’ che veniamo da un paese lontano…” iniziai ad argomentare. “S’inferisce facilmente senza tradizioni”, m’interruppe quello stronzo dello scrittore. “Uuuhm… già”, mi sforzai di convenire. “Ma è di Nerone e della sua politica che volevo parlarvi.” “Ah, l’imperatore…” fece il senatore, drizzando subito le antenne. “Beh, è sostenuto dall’appoggio della plebe. In quest’ultimo periodo ha guadagnato una popolarità eccezionale.” “Unicamente per la sua munificenza”, completai. “Ma il suo regime resta folle e sanguinario. “Però la classe senatoriale…” provò a continuare quello. “Gli è apertamente ostile”, aggiunsi ancora una volta. “Le orge e i crimini del sovrano demente sono sotto gli occhi di tutti.” “Poi c’è Poppea…” intervenne l’antipatico poetastro. “Che, grazie alla propria abilità e alle sottili manovre, è riuscita a far fuori tutti quelli che avrebbero potuto ostacolare il suo potere”, continuai, ormai inarrestabile. “E per la quale è iniziata una vita di lusso e dissolutezza”, rincarò, ormai senza remore, Caius Calpurnius Piso. “La qual cosa ha fatto crescere a dismisura presso il popolo l’ondata d’odio contro questa donna!” conclusi, con fervore. “Bisogna pensare qualcosa…” osservò Petronius Arbiter. “Allora si fa o no questa congiura?” intervenne il commercialista che, sentendosi escluso, ci teneva a dire la sua. “Coniurationem facere… uhm, il tuo compagno ha avuto una buona idea”, esclamò il senatore, precipitandosi a stringergli la mano. “Sei coraggioso, amico, insieme abbatteremo Nerone!” “Ho… ho capito bene?” balbettò cuor di leone. “Sicuro”, ci tenni subito a tranquillizzarlo (?). “Gli hai appena suggerito di ordire la congiura che li spedirà entrambi al camposanto.” “Ma… ma… ma io non volevo”, balbettò quello, ridotto un cencio. “Devi essere orgoglioso, invece”, provai a caricarlo, con più d’un filo di rimorso. “Con la tua presenza nel passato farai riscrivere i libri di storia.” “E se poi faccio scoppiare la terza guerra mondiale?” obiettò il tapino, che in ogni caso aveva cominciato lentamente a riguadagnare la stima di se stesso. “Guarda che al massimo tu mi puoi affondare un incrociatore a battaglia navale”, ritenni opportuno suggerirgli, per un giusto ridimensionamento. “Bene, amici, adesso serve un luogo sicuro dove incontrarsi per mettere a punto il piano”, s’intromise il senatore. “La tomba di Cecilia Metellla”, propose lo scrittore. “Ottimo, ma sarebbe meglio farlo oggi stesso”, articolai, cercando di non farmi sfuggire la ghiotta occasione. “Fugit irreparabile tempus.” “Hai ragione!”. “D’accordo!” consentirono entrambi. “Allora noi due partiamo subito”, manifestai. “Ehm… non avreste un cocchio da prestarci?” “Certamente. Pigliate pure il mio. E’ il primo accanto all’ingresso del Palazzo”, disse Petronio, che mi sembrò immediatamente più simpatico.” Io verrò con quello del mio amico.” Sospingendo letteralmente Anselmo, mi affrettai verso l’uscita e, si sperava, la salvezza. Il carro per fortuna era ‘posteggiato’ esattamente là dove aveva detto il poeta. Balzati a bordo – il commercialista invero alquanto recalcitrante – sferzai il lucente destriero e partimmo a razzo. “Madonnina, vai più piano!” berciò Lomartire, i capelli ritti sulla testa. “Ma poi dove cavolo stiamo andando?” “Ostia! Il porto di Ostia! Giustappunto dianzi ho partorito la salvifica elucubrazione!” vociai, euforico. “Dammi pure del callido!” “Eeeh…? Ma come cacchio parli!” fece l’aiuto nocchiero. “Insipiente creatura, dopo tanti anni che godi il privilegio di essere al mio fianco, dovresti averlo appurato ormai che l’aulica facondia mi è congeniale!” esclamai, contrariato. “Già, troppi anni”, rimarcò quella serpe che mi ero tenuto in grembo. “Cercheremo un’imbarcazione”, dissi, sorvolando sulla fella asseverazione. Incredibilmente senza rovesciarci e ucciderci, cinque ore più tardi – i segnali stradali non è che fossero poi tanto chiari, e avevo continuato a girare in tondo – raggiungevamo alfine il famoso porto dell’Urbe. “Aaah, perché ci abbiamo messo tanto?” belò quel lemure, che ormai possedeva solo vaghe sembianze umane. “Mi avevi detto che non erano neppure trenta chilometri.” “E’ che ho voluto studiare il territorio”, risposi, asciutto. “Ma non dobbiamo andare per mare?” insistette la petulante larva. “Eeehm… sì, ma non si sa mai”, aggiunsi, invelenito. “Un bravo stratega deve sceverare ogni altra valida alternativa.” Abbandonato il cocchio, ci avviammo – a onor del vero entrambi con andatura da zombie – verso il molo. “Toh, Poppea!” proruppe, neppure cinque minuti più tardi, Lomartire, causando il contemporaneo voltarsi verso di noi della regina. “Testa di legno, che bisogno c’era di gridarlo a voce così alta!” imprecai, perdendo solo per un attimo la mia proverbiale calma. “Tanto ormai con tutto quel tempo che hai impiegato a ‘studiare il territorio’ hai vanificato la nostra fuga”, osservò, caustico. “Persa la coincidenza, quella è venuta a Ostia e magari ha deciso d’imbarcarsi sulla nostra stessa nave.” “Sì, e così ci facciamo una bella crociera insieme!” sbottai, intanto che Poppea, additandoci, inferocita, ci lanciava dietro un intero manipolo di soldati. Con un rapido dietro-front, ci infilammo in una stradina e ci mettemmo a correre a più non posso. I maledetti si misero dietro. Superavamo case, magazzini, negozi. Poi fu la volta di un tempio, del faro, di un teatro. Gl’inseguitori cominciarono a guadagnar terreno: imprecavano e s’incitavano l’un l’altro. “Là, presto, le Terme di Nettuno!” gridai, col fiato grosso. Superato di slancio lo spogliatoio, piombammo come due indemoniati – anche Anselmo aveva messo le ali – nel tepidarium, la sala di ambientamento del lussuoso complesso, per fortuna, vuoto. “Fottuti! Siamo fottuti!” non cessava di ripetere il meschino, il bel colorito tipico dell’infartuato. “Sù, non è il caso di disperare”, provai a rincuorarlo. “Credo non ci abbiano scorti. Forse ce la facciamo.” “Madonnina, e quello chi è Babbo Natale!” strillò Lomartire, isterico. “Putt… ci hanno seguiti!” urlai, senza più ritegno. “Vai! Vai! Nel calidarium!” Schizzammo nell’adiacente sala ad alta temperatura. “Chiudi la porta, per carità!” ululò il commercialista, che adesso presentava tutti i sintomi della personalità schizofrenica. “Perché, temi che una corrente d’aria possa causarti qualche fastidiosa infreddatura?” dissi – più a me che a lui -, nel vano tentativo di farmi coraggio. “Oh porca, sono entrati!” gemette la mia guardia del corpo. “Presto, c’è un’altra sala! Rintaniamoci più in profondità!” “Ma è il sudatio”, cercai di protestare. “Vieni! Vieni!” gridò scompostamente quello. “Che me ne frega se sudo!” Stavamo cercando ancora di barricarci, quando il trambusto di passi concitati ci annunciò il temuto arrivo dei soldati.
Posted on: Thu, 11 Jul 2013 17:58:57 +0000

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