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Un nuovo campo democratico Il testo del documento in vista del congresso del Pd promosso da Goffredo Bettini Il documento che presentiamo è un contributo al confronto congressuale, rivolto all’insieme della nostra comunità. È promosso da persone con storie e sensibilità diverse, unite, tuttavia, nell’allarme sulla crisi democratica della Repubblica e sull’attuale stato di confusione e di frammentazione delle forze progressiste e democratiche. Sono contenute in esso delle proposte che intendiamo portare alla discussione dei circoli e delle federazioni, nella prima fase congressuale, non ancora ipotecata dalle candidature nazionali e dalle relative mozioni. Ci auguriamo che dai territori possa venire una condivisione ed un arricchimento della prospettiva che indichiamo; al di là della scelta che ognuno farà, tra di noi, circa il candidato a segretario del partito, sulla base anche di un successivo e più chiaro quadro dei reali competitori e dei loro programmi. RIACCENDIAMO UNA SPERANZA RICONOSCENDO LA SCONFITTA La sostanziale sconfitta del Pd alle ultime elezioni politiche ha fatto emergere la dimensione allarmante della crisi democratica che attraversa la Repubblica. Il Pd, nel più acuto momento di crisi del berlusconismo, perde rovinosamente in voti assoluti rispetto al risultato ottenuto nel 2008, dopo il suo primo, positivo anno di vita. Lo smottamento della destra gonfia il voto improduttivo di Grillo o si inabissa nell’astensionismo. L’illusione ottica di aver ottenuto una maggioranza di deputati per una pessima legge elettorale, non può nascondere la sostanza del problema: i cittadini ci hanno rifiutato, considerandoci parte di un sistema politico autoreferenziale, conservatore, ripetitivo, inconcludente. Non aver preso atto onestamente, subito dopo il voto, di questa realtà, ha portato ad una catena impressionante di errori. Con meno del 25% dei consensi degli italiani, se si considera la platea degli aventi diritto al voto, abbiamo preteso in modo velleitario di dare tutte le carte. Indicare il premier, i presidenti delle Camere, il Presidente della Repubblica. Invece di mettere a disposizione i nostri voti per sostenere un governo del Presidente, di scopo e di breve durata, in grado di cercarsi, attraverso un’alta personalità incaricata, una maggioranza in Parlamento senza preventivi accordi politici, abbiamo dichiarato guerra al mondo, finendo per spararci sui piedi. L’irrealismo iniziale ci ha spinto verso una condotta affannosa e confusa fino al prevedibile e drammatico voto su Marini prima e su Prodi dopo e, successivamente, alle dimissioni di Bersani e alla costituzione di un’alleanza con la destra, un esito a quel punto tanto innaturale quanto inevitabile. Auguriamo sinceramente al governo Letta, che ha una giustificazione direttamente proporzionale alle realizzazioni concrete che attuerà per il bene dell’Italia, di riuscire ad ottenere risultati importanti, ma non vi è dubbio che in esso è collocato un dispositivo di autodistruzione che si chiama Silvio Berlusconi. E, comunque, non affronta in alcun modo i due grandi mali della Repubblica: la presenza ancora forte di una destra populista anomala nel contesto europeo e la voragine che si è creata tra i cittadini e le istituzioni, con il conseguente esplodere di un sentimento di rifiuto della politica. Finché queste due questioni rimarranno senza risposta, la Repubblica non potrà avere alcuna duratura stabilità. La splendida vittoria del Pd e del centrosinistra nelle città, ed in particolare a Roma, non cambia la situazione nel profondo. Semmai dimostra che con una direzione politica più accorta e con uno schema politico più aperto, chiaro e coerente, le cose migliorano nettamente. Essa, infatti, non può nascondere il dato di un ulteriore e netto aumento dell’astensionismo che ripropone il fenomeno preoccupante di milioni di cittadini senza rappresentanza; fluttuanti e spersi nella difficile modernità che sono costretti a vivere. La crisi della rappresentanza politica investe tutti i Paesi occidentali; ma in Italia è più grave e può sfociare in soluzioni imprevedibili e pericolose. Lo Stato e l’identità della nazione nel nostro Paese sono più fragili rispetto alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania. Siamo arrivati tardi all’unità dello Stato, con parti grandi della popolazione indifferenti o ostili e una monarchia scarsamente simbolica ed autorevole; dopo abbiamo avuto un parlamentarismo notabilare; infine c’è stato il fascismo e il suo rapporto plebiscitario, autoritario e distorto con l’opinione pubblica. La guerra di Liberazione ha aperto un nuovo orizzonte, con l’affermazione di una vera vita democratica. La genialità dei costituenti sta in particolare nell’art.3, in cui è chiara la loro acuta percezione della vulnerabilità dello Stato che si intendeva costruire. È scritto nell’articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dunque la Costituzione non è solo una tavola di principi e di valori fissi alla quale riferirsi; ma sollecita un’azione permanente di rimozione degli ostacoli; indispensabile per sorreggere, inverare, fortificare la democrazia italiana, perennemente esposta a tensioni e a conflitti, mai del tutto sopiti nel corso della nostra storia. Ma chi deve rimuovere gli ostacoli, se non i cittadini ed il popolo organizzati nei grandi partiti di massa? Da qui deriva la grandezza e la specificità di quei partiti che nel dopoguerra per 30 anni non hanno solo “agito” la democrazia, per affermare le loro idee o i loro progetti, ma ne sono stati parte costituente e costruttori, identificandosi in essa ed animandola. Sappiamo che negli anni ’80 questa missione si esaurì. Fu Enrico Berlinguer il primo a sollevare l’allarme, che rimase purtroppo inascoltato, e si arrivò così nel ’92 al crollo della Prima Repubblica corrosa dalla corruzione, messa a nudo dalla magistratura. E ancor prima Aldo Moro, a proposito del ’68 e della rivolta giovanile, si interrogò acutamente sulla capacità della politica di rispondere adeguatamente a ciò che di nuovo veniva maturando nella società italiana. Ma la domanda vera che ci dobbiamo porre è: dopo quel crollo che ha lasciato un vuoto e un’enorme funzione vacante, ci siamo preoccupati di reinventare, nelle modalità adeguate ai tempi nuovi, forme di rappresentanza e soggetti politici capaci di rinnovare quell’azione dal basso volta a rimuovere gli ostacoli e a sorreggere la democrazia? La nostra risposta è no. Questo è il vero imperdonabile errore di tutta la classe dirigente democratica protagonista della cosiddetta Seconda Repubblica. Si è mancata un’occasione storica; si è stati al di sotto della responsabilità che gli eventi ci avevano assegnato. Dal ’92: zero riforme istituzionali; zero progettualità attorno ad un inedito soggetto politico, in grado di riaprire i canali di rappresentanza e di partecipazione popolare. Solo Berlusconi ha elaborato il passaggio d’epoca e ha dato una risposta, regressiva e pericolosa. Ma una risposta. Con il populismo ha agito dall’alto e dal basso. Contendendo il governo al centrosinistra, ma contemporaneamente sedimentando un senso comune, una subcultura, modelli di comportamento, un’identificazione con il suo agire politico. La sinistra, uscita sostanzialmente indenne dalle inchieste giudiziarie, ha pensato di sfruttare nel breve periodo un vantaggio contingente per andare al governo, sottovalutando il crollo di tutto un sistema al quale anch’essa aveva preso parte, seppure con ben maggiore onestà delle persone: perché il suo mondo partecipava proporzionalmente agli appalti, dirigeva le Asl, assumeva personale nelle aziende pubbliche, gestiva banche. Sarebbe stata necessaria, tanto più dopo la caduta del Muro di Berlino, una vera e propria rivoluzione democratica; per coraggio e intensità politica pari a quella realizzata all’indomani della Resistenza e della vittoria della Repubblica sulla Monarchia. Si è parlato di transizione infinita. In verità la transizione non è mai partita. Per brevi periodi le forze democratiche sono riuscite anche a vincere; realizzando dal governo cose importanti. Soprattutto nel 1996 furono avviati processi di riforma, raggiungendo così obiettivi europei di portata storica. Ma gli ultimi venti anni hanno segnato un’egemonia della destra; collocando noi sempre di più a mezz’aria. Senza terra e senza cielo. Senza il popolo e senza un nostro sguardo sul mondo. La situazione di oggi è figlia di questa storia. Si è discusso stoltamente di partito pesante o liquido. Modelli astratti, privi di qualsiasi riferimento alla realtà. Il partito non è un fine, un feticcio, un valore in sé, un’ideologia. È uno strumento volto a svolgere il ruolo di rappresentanza delle persone, della loro voglia di cambiamento e di miglioramento della vita. Esso deve intimamente connettersi con il mutamento degli orientamenti, delle attese, delle dinamiche che scuotono la società. Dopo tanti anni di retorica sul partito pesante abbiamo assistito in molte città allo spettacolo penoso di interi nostri gruppi dirigenti locali all’assalto di tutte le postazioni elettorali in Parlamento e nelle Regioni. La verità è che da anni il Pd si dibatte in un ginepraio di correnti, sottocorrenti, personalismi e cordate di potere. Nell’assoluta indifferenza di tutti e tacitando le poche voci di dissenso. È giusto l’appello contro le tendenze personalistiche e plebiscitarie; tranne constatare che noi siamo diventati negli ultimi anni un’oligarchia di leader personali, ognuno dedito alla promozione del proprio ruolo, della propria immagine e dei propri consensi interni. È sorprendente la capacità trasformista di chi oggi grida contro le correnti, avendone fatto parte fino a ieri ed essendone tranquillamente immerso ancora oggi. Nessuno risponde più a nessuno e la balcanizzazione ci ha portato fino all’episodio drammatico della mancata elezione dei Presidenti della Repubblica da noi proposti; considerato un po’ ingenuamente una sorpresa, quando esso, piuttosto, è stato la conferma di una degenerazione che via via ha invaso il nostro organismo politico. Occorre recuperare un filo di coerenza nei comportamenti e nello sviluppo della propria azione e storia personale. La spregiudicatezza è direttamente proporzionale alla mancanza di una vera rappresentanza. Le correnti attuali e i leader che le comandano non devono rendere conto a nessuno, perché non hanno alcuna radice sociale, ideale, programmatica. Non danno voce a pezzi della realtà italiana; sono superfetazioni che si autoalimentano in un gioco continuo di alleanze e conflitti ai più incomprensibili. Se abbiamo potuto nel giro di qualche giorno passare dal governo di cambiamento e combattimento contro Berlusconi, alla candidatura di Marini con l’assenso di Berlusconi, a quella di Prodi contro Berlusconi, per poi tornare ad un governo fondato sull’alleanza politica con Berlusconi, è perché siamo “liberi” da qualsiasi vero condizionamento del popolo al quale diciamo di riferirci. I nostri elettori hanno guardato attoniti le nostre giravolte. Spettatori di eventi che via via sono stati percepiti come sempre più estranei. Questa estraneità corrode la Repubblica. Eppure, noi siamo la sola speranza per invertire la rotta. Dalla destra ancora aggrappata a Berlusconi l’Italia non può aspettarsi nulla se non ulteriori colpi alle istituzioni. Grillo ha deluso proprio sul versante democratico: avendo prima illuso di dar voce ai cittadini, per poi finire con l’espellere qualsiasi dissidente. Dobbiamo avere noi il coraggio di guardare in faccia la realtà. La tenuta del Pd dipende da una presa d’atto di ciò che ha funzionato, di ciò che è fallito e di ciò che è necessario per rimettere in pista energie ora ferme o attonite. E la presa d’atto dev’essere chiara, anche dura, ma non equivocabile, perché ci sono, nel PD, pezzi di un’élite che crede ancora di poter governare col trasformismo un Paese prostrato dalla crisi. Essi rappresentano, almeno secondo noi, un ceto francamente conservatore e privilegiato, che non ha più nulla a che fare con la realtà di chi – e parliamo di milioni di persone – il centro-sinistra intende realmente rappresentare. LA CRISI DEMOCRATICA AL CENTRO DEL CONGRESSO Nel prossimo congresso si deve discutere della crisi sociale ed economica e di come uscirne. Delle riforme istituzionali necessarie. Dell’Italia e del suo ruolo in Europa. Di tutto ciò, insomma, che riguarda il futuro del Paese che dobbiamo consegnare alle nuove generazioni. Ma c’è una questione che le racchiude tutte. La questione democratica. Lo sfaldamento della rappresentanza e il conseguente sbandamento dello Stato democratico. Se non si interviene su questo, ogni prospettiva di rinascita sarà vana. Al centro della nostra discussione, dunque, non può che essere la vera riforma che sta tutta nelle nostre mani. La riforma del soggetto politico al quale affidiamo l’avvenire della Repubblica. Questa riforma non va solo evocata genericamente. Così come al grido contro le correnti debbono seguire proposte coerenti, chiare e vincolanti. La politica oggi ha bisogno di testimoniare con l’esempio gli annunci espressi in forma insopportabilmente retorica, attraverso liturgie che fanno sembrare i politici il clero di una religione estinta. Tanti che hanno invocato il rinnovamento generazionale si sono poi sistemati nelle liste. Al pari di tanti che negli ultimi anni hanno pienamente partecipato alle scelte e condiviso la linea del gruppo dirigente e oggi si ergono a intransigenti censori del passato. Anche di questo muore un partito: di un ceto politico incapace di assumersi le responsabilità, autoreferenziale e sempre pronto a riproporre se stesso a seconda delle convenienze. Cambiare rotta significa dire cose chiare. Anche con il rischio di sbagliare. Noi ci proviamo. Vogliamo dare un senso al partito, perché esso possa darne uno all’Italia. Di quale senso stiamo parlando? Non di “direzione di marcia”, almeno non ora; “senso”, per noi, significa “significato”. Significato per chi fa il militante, per chi amministra, per chi sta in Parlamento. Se le persone che hanno voglia di donare qualcosa di sé alla politica non hanno la possibilità di farlo nel PD, perché si sentono escluse, o trascurate o proprio emarginate, che prospettiva possiamo avere? La passione politica, al di là del significato esclusivo e pervasivo che ha per una stretta cerchia d’individui, è come una marea che ti prende e ti lascia più volte nel corso della vita: e il PD deve consentire ai propri elettori di assecondare questo impulso naturale, accettandoli ogni volta per quel che di buono possono dare alla comunità. Il partito identitario costruisce mura e fa l’analisi del sangue a chi bussa alla sua porta: il PD è una parte importante dell’Italia, e sa che la politica o si mescola alla vita, o finisce per costruirne una sterile rappresentazione, che nuoce allo stesso Paese. E poi vogliamo dare un futuro all’Italia, a partire da un’analisi vera della società italiana, condotta con risorse intellettuali aggiornate, con criteri di lettura realistici. Per costruire una visione del Paese bisogna amare il Paese, mescolarsi al Paese, soffrire col Paese. Se uno sceglie la politica per sistemarsi, è chiaro che il suo scopo è stare alla larga da chi ha bisogno, o prenderlo per il naso con la retorica elettorale. Noi vediamo poca chiarezza nel Pd su questo. Il Pd dei notabili s’illude di rappresentare pezzi più o meno identificabili o influenti della società italiana, ma si sottrae alla domanda: “che cos’è la società italiana del 2013? Che cosa dovrebbe essere per avere un futuro?”. E’ un problema di deficit di riflessione intellettuale? Sicuro. Ma è soprattutto un problema di deficit d’interesse per quello che accade intorno a noi. Se siamo autocentrati, gli altri sono un mezzo, non un fine. E invece, la sinistra dovrebbe essere connotata proprio da questo moto empatico verso l’innovazione comunitaria, verso la marginalità, verso il bisogno. E la natura correntizia del PD è in realtà la manifestazione virale della cultura egemone che una destra egoista e populista ha iniettato nel corpo di tutti di noi, per vent’anni: l’egoismo dei notabili e degli oligarchi è segno di una degenerazione e di una mutazione contro la quale bisogna assumere un antidoto pre-politico, l’unico che possa funzionare: l’amore verso il prossimo. Senza se e senza ma. Gratuito e totale. Non c’è altro. IL CAMPO DEMOCRATICO Da tempo siamo convinti che le divisioni in diversi partiti (alcuni dei quali oggi in crisi o quasi scomparsi) e nelle varie correnti all’interno di essi, sono solo funzionali alla conservazione di classi dirigenti conservatrici e in parte logore che vogliono mantenere e difendere i loro orticelli, le loro rendite di posizione e il loro potere in contrasto con un fortissimo sentimento di unità tra i nostri elettori. Non vale più la considerazione che l’articolazione della rappresentanza politica corrisponde ad una varietà di insediamenti sociali, di culture radicate, di identità che risalgono alla storia italiana. Tutto ciò da tempo è stato spazzato via, o molto indebolito, dalla trasformazione della modernità globalizzata, dalla crisi dei corpi intermedi, dalla rivoluzione del mondo del lavoro, dallo stacco che purtroppo si è verificato tra politica e cittadini, tra istituzioni e popolo. Oggi, dunque, non c’è alcun motivo di tenere separato ciò che nella dinamica sociale, negli orientamenti e nelle condizioni esistenziali delle persone si avverte, o potenzialmente si può avvertire, unito. Le distinzioni sui cosiddetti programmi sono state troppe volte esasperate per ragioni di tattica politica, di visibilità, di pura propaganda. È del tutto evidente che nel PD ci sono tante personalità politicamente distanti tra di loro, talvolta in misura maggiore rispetto a quella che li divide da chi milita in altre formazioni del centro-sinistra. La canne d’organo sono accordi di potere che generano una feudalizzazione della politica. Occorre dunque lavorare per un campo unico, largo, inclusivo dei democratici. Quello che purtroppo non è riuscito ad essere il Pd. D’altra parte le grandi vittorie il centrosinistra le ha ottenute proprio quando ha agito come campo unitario. Così sono state conquistate le grandi città: Milano, Torino, Napoli, Bologna, Cagliari, Genova ed ora Roma. Nessuno dei nostri elettori si è chiesto di quale partito o corrente fosse il candidato Sindaco. Quanto moderato o radicale. Si è scelto in ciascuna realtà il migliore democratico in grado di aprire una fase di buona politica, alternativa alla destra. L’empatia unitaria, creativa e spontanea della nostra gente è più avanti delle divisioni di chi pretende di guidarla. Agli schemi astratti di alleanza o conflitto degli stati maggiori, vince la semplicità di una spinta trasversale che unisce e mescola le persone. Questo campo unitario deve essere il nuovo soggetto della sinistra e di tutti i democratici italiani. Cosa lo unifica e lo delimita? Come abbiamo detto non devono essere le convenienze dei gruppi dirigenti, o gli interessi di blocchi sociali che in gran parte non esistono più nelle forme del passato, né i programmi illuministici e perfetti, elaborati a priori dai partiti, i quali per altro non hanno più la sufficiente capacità cognitiva della realtà. No, nulla di tutto questo. Il campo è unito da un medesimo sguardo sulle cose e sul mondo, attraversato da una modernità in bilico tra straordinarie occasioni e un arretramento di civiltà. A noi preme lo sguardo che anima i programmi, la lettura della realtà, l’azione, le scelte e la passione delle persone. Siamo stati inondati di programmi; alla fine inerti e improduttivi. Contraddittori e incapaci di ingranare, come un motore in folle, nella cangiante e mobile vita dei cittadini. Lo sguardo dei democratici è alternativo a quello della destra. Esso muove nelle profondità della mente il riconoscimento dell’altro, l’immedesimazione nei confronti del suo dolore, l’empatia, la solidarietà, il desiderio di realizzazione dell’autonomia, della libertà per se stessi e per il prossimo. Tutti elementi essenziali per leggere la condizione sociale e i conflitti dell’oggi. Questo sguardo delimita il grande campo dei democratici: che è largo, perché in esso possono tranquillamente ritrovarsi a proprio agio sia i moderati che la sinistra più radicale: in un soggetto politico innovativo, partecipato e contendibile che, attraverso una fusione permanente e progressiva con la variegata e mutante realtà sociale e umana da governare, compirà le scelte programmatiche più opportune, sulla base di processi di democrazia deliberante. Tutto ciò è esattamente l’opposto di quella egemonia culturale, o sub culturale, che Berlusconi è riuscito a imporre negli ultimi vent’anni in Italia. Egli ha promosso la sua visione delle cose. Ha toccato tasti dell’animo delle persone, a lui congeniali: l’esaltazione del più forte, della competitività distruttiva, del potere del denaro e dell’immagine e, soprattutto, delle gerarchie. Ha sancito il disprezzo di chi non ce la fa e l’accettazione, come in natura, della distanza ineluttabile tra chi sta in alto e chi deve subire. Ecco il confine chiaro e profondo tra la sinistra, i democratici e la destra. Ci sono due sguardi diversi alternativi e inconciliabili. Il campo dei democratici deve conquistare autonomia e coraggio con le proprie parole. Affermando il valore delle persone e lottando perché esse abbiano una vita più autentica, ricca e piena. Conquistando spazi per la loro autonomia, creatività, voglia di intraprendere contro ogni prepotenza, burocrazia vessatoria, rendita economica e di posizione, furbizia o slealtà nella competizione della vita. Costruendo reti di solidarietà, di dialogo e di comprensione. Non in omaggio ad un astratto buonismo. Piuttosto perché questi sentimenti, che sono dentro ciascuno di noi, ci rendono più pienamente umani. Non le storie passate, o le identità trascorse possono amalgamare nel Pd le tradizioni diverse che in esso sono confluite: piuttosto, il radicale ritorno ai principî (intesi, diceva Machiavelli, come le fondamenta dalle quali siamo scaturiti) del valore sacro delle persone. Il campo democratico ampio, unitario, inclusivo e contendibile unisce tutti coloro che accettano questa sfida. LA DEMOCRAZIA DELIBERANTE Il campo democratico si fonda su una diffusa democrazia deliberante. L’autoreferenzialità delle attuali formazioni politiche, compreso il Pd, ha conseguenze grandemente dannose. Le correnti a canne d’organo, i gruppi di potere e personali, la caccia permanente delle preferenze determinano una dipendenza rispetto alla necessità di reperire risorse e assicurare scambi di favore. Si sono così costruiti sistemi permanenti e ben funzionanti, che di fatto sostituiscono le strutture di direzione elette nei congressi. È dentro questa cornice che si diffonde il malcostume. Inoltre, l’autoreferenzialità riduce drasticamente la capacità di indagine e di lettura da parte delle formazioni politiche; che perdono così il respiro strategico e la capacità di analisi e, dunque, di scelta ponderata e pertinente. L’astrattezza e in certi casi la casualità del dibattito programmatico ha la radice in questa generale “irresponsabilità” verso le persone in carne ed ossa, i territori, la loro complessità. Un tempo i grandi partiti di massa avevano ben altra capacità cognitiva diffusa e riuscivano a realizzare un comando di indirizzo sulle tecnostrutture dello Stato. Oggi né la politica, né le tecnostrutture esprimono livelli adeguati di conoscenza. Pensare di risolvere questo problema forzando ulteriormente le decisioni apicali è del tutto illusorio. Al contrario, il campo democratico deve ridare voce, senso e potere alle persone, nell’esercizio della loro responsabilità individuale. Questa cessione di sovranità verso il basso è il solo vero atto esplicito e concreto per superare il correntismo e le intercapedini burocratiche. Dunque: il campo, attraverso le primarie, non si dovrebbe limitare a scegliere le figure monocratiche delle istituzioni (sindaci, presidenti di regione, etc.) o il segretario nazionale; ma anche gli indirizzi e le scelte fondamentali che la politica impone. Servono primarie sui grandi temi, attorno ai quali c’è un dibattito, un confronto, un conflitto non risolto. L’intelligenza diffusa e collettiva del campo contribuisce, deliberando, a conoscere e decidere nel modo più adeguato. Si può osservare che tali procedure non sono consone alla rapidità della politica odierna. Non è vero. La democrazia non è mai una perdita di tempo: se le procedure sono chiare, agili, certe, fondate su istruttorie di merito che aiutano a compiere le scelte. Nel passato, per esempio nel caso del testamento biologico, le correnti hanno impedito per mesi di assumere una qualsiasi posizione, con il gioco delle interdizioni e dello stallo. Sono i conflitti dei gruppi di vertice che portano alla paralisi; non un popolo consapevole e sereno che discute e decide. Tale prospettiva non deresponsabilizza affatto i gruppi dirigenti nazionali eletti ai congressi. Non si tratta, infatti, di una democrazia referendaria. O di un generico assemblearismo movimentista. Si tratta di una forma partito fondata su consultazioni deliberanti alle quali sottoporre, con regole e procedure permanenti da stabilire, i temi controversi o le questioni più rilevanti; istruiti attraverso documentazioni e tesi differenti. Si può verificare in casi eccezionali anche un conflitto tra il risultato delle consultazioni e il definitivo orientamento degli organismi nazionali legittimamente eletti e in carica. Ma tale conflitto se si dovesse verificare, sarà aperto, trasparente nelle responsabilità che ognuno andrebbe ad assumersi. Il contrario della confusione e del trasformismo attuali, dove tutti parlano, pochissimi decidono, e tantissimi sfuggono anche al minimo rendiconto delle proprie azioni. La democrazia deliberante offre un terreno alternativo sia alla deriva plebiscitaria e populista che produce una semplificazione tanto illusoria quanto autoritaria; sia alla deriva puramente protestataria e ribellistica. La sfida è dotare il Paese di migliaia di “agorà” abitate da una nuova passione politica. Queste “agorà” dovrebbero essere i nostri circoli, profondamente cambiati. Liberati dal ruolo mortificante di strutture per la semplice propaganda, per la ricerca di consensi personali e di preferenze, per l’incubazione di carriere più o meno brillanti delle giovani leve, per un impegno utile ma limitato, se esclusivo, alle questioni locali. I circoli si trasformerebbero nel luogo aperto che pratica la democrazia deliberante: organizzati in modo flessibile, adeguato alle esigenze dei cittadini e soprattutto dei giovani, dove il tempo è ottimizzato per compiere tre fondamentali operazioni: l’incontro tra le persone, il confronto tra di esse sui temi e i dilemmi da esaminare, la deliberazione. Decisivo in questo percorso è il supporto (non il dominio assoluto) della tecnologia di comunicazione più innovativa, a partire dalla rete. Nulla di più lontano da un generico spontaneismo; piuttosto il tentativo di inventare una forma politica adeguata all’oggi, al tempo che viviamo, in grado di ricostruire quello strumento indispensabile per la Repubblica, volto a “rimuovere” gli ostacoli per il raggiungimento di una piena libertà, autonomia e dignità dei cittadini. Insomma, il tentativo di riaprire un qualche canale democratico tra il potere e il popolo. D’altra parte, andare a decalcomania sulle persone è il solo modo per far emergere il conflitto e renderlo politico. La realtà che abbiamo innanzi è sempre meno connotata dalla forza aggregante di ceti sociali omogenei, di identità certe, di radici familiari o culturali antiche, di ideologie condivise, di valori indiscussi. Tutto appare in movimento. Tutto si intreccia e interagisce in modo disordinato e imprevedibile. Le differenze sociali esistono, anzi tendono ad aumentare. Il dominio è meno visibile, ma più esteso ed invasivo. Ma si stenta a percepire i soggetti che decidono e dunque le responsabilità delle sofferenze e delle cose che non vanno. I cittadini dentro al flusso indistinto di informazioni, input, provvedimenti, reazioni e controreazioni che li investono, si sentono più soli ed incerti nel comprendere ciò che è vero e ciò che è falso. Restano abbandonati e vivono una condizione di spaesamento, esposti ad una rabbia senza voce, ad una transitoria adesione al grido più forte e radicale, ad un ripiegamento in se stessi nella ricerca di una qualsiasi salvezza individuale. Eppure ognuno ha dentro di sé una gran voglia di cambiamento, una potenzialità politica che non trova rappresentanza. E a questo livello che il soggetto politico può intervenire . Si colgono queste dinamiche solo con l’umiltà di un’indagine “terragna”, processuale, con successive ipotesi e verifiche. La forma politica deve intervenire con mano leggera e decisa e con precisione chirurgica; là dove la spinta solitaria a fare qualcosa del cittadino e a prendere parte emerge in modo confuso e incerto, occorre fissarla, in qualche modo cristallizzarla, rendendola cosciente e produttiva in un rapporto di dialogo e di collaborazione con altri, nello spazio pubblico delle “agorà”. Prima che essa si avviti su se stessa, per inabissarsi nell’indifferenza e nella sconfitta. D’altro canto, parlare di sinistra non è più sufficiente. Non basta fare appello alla Resistenza, alle lotte operaie, alle bandiere rosse. Né ad un elenco di riforme che giace lì da tempo immemorabile: il programma minimo, talvolta il programma massimo. Oggi c’è qualcosa di più profondo da sondare, che va oltre le parole. È il disagio dell’esistenza. È la condizione di marginalità. È l’esperienza contemporanea di esclusioni e di inclusioni (avviene tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime o artefici). Le identità sono plurime in ciascuno di noi (e per questo solo motivo un “partito identitario” non ha più senso), a seconda della nostra posizione nello spazio e nel tempo: cambiano, se siamo consumatori, produttori, locali, globali, glocali, e via discorrendo. Siamo anche ubiqui, perché la rete e l’informazione planetaria ci portano a questa presunzione. Siamo soli, però: appesi a pochissimi legami autentici. Spesso frammentati dentro di noi. Incapaci di reagire alle oppressioni o alle ingiustizie, perché la dimensione spettacolarizzata della vita collettiva ci fa spettatori consapevoli, ma attori frustrati. Abbiamo la sensazione di non riuscire più a farcela, che il nostro sforzo non servirà. Ma se recuperiamo l’umanesimo, cioè quella forza che abbiamo dentro, che è alla radice della specie, che ci fa senzienti e collaborativi ed empatici (a volte); se recuperiamo la responsabilità che è in noi – ma che lasciamo da parte, perché tanto a che serve?, accettando le cose come stanno -; se facciamo tutto questo, assumendo la condizione umana come dato strutturale della nuova politica, allora, forse, avremo un futuro. Ma non per noi. Ha ben poca importanza che noi, come singoli, abbiamo un futuro: importa che lo abbiano i nostri discendenti, collettivamente, e anche il mondo dopo di noi. La sinistra delle incrostazioni identitarie vive nella nostra memoria biologica o nella nostra memoria culturale: ma non serve ad essere in sintonia col popolo. Ci sono bisogni che la politica neppure conosce. Ci sono marginalità che non interessano nessun ministro o nessun deputato. Ci sono processi che non accadranno mai, se non interrompiamo il flusso d’ipocrisia in cui siamo immersi. Bisogna descrivere le verità scomode e imbarazzanti che ci bloccano: dire che ci sono un sacco di “re nudi” in giro; che “la rimozione degli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini” funziona se si rimuovono anche gli ostacoli culturali e mentali. La partecipazione, nel Pd, dev’essere un atto-tentativo di liberazione e di emancipazione della persona: dalle gabbie del luogo comune, per quello che è possibile dall’angoscia dell’esistenza, dalla fragilità della nostra natura individuale oggi più che mai esposta. Questo è il nostro compito, in Italia e in Europa. TAG: Goffredo Bettini, Partito democratico, Pd
Posted on: Wed, 10 Jul 2013 17:44:50 +0000

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