Una delle formule che nella confusione intellettuale dominante fra - TopicsExpress



          

Una delle formule che nella confusione intellettuale dominante fra i nostri contemporanei ha una parte di rilievo, è quella dell’antitotalitarismo. Essa è soprattutto usata dalle democrazie, specie quando indulgono in fisime liberali. Il punto di riferimento qui è essenzialmente il confuso, informe concetto della libertà del singolo, da noi criticato nel precedente capitolo; per cui nella formula vengono accomunate cose molto diverse, come già lo prova il fatto che, sia pure in termini assai primitivi, si va poi a distinguere un “totalitarismo di destra” da uno di “sinistra”. Ma nelle correnti ora accennate, è chiaro che spessissimo il “totalitarismo” serve solo da falso scopo. Come ai marxisti e ai comunisti torna comodo stigmatizzare come “fascismo” tutto ciò che non sbocca nella loro ideologia, dei pari la confusione circa il totalitarismo serve agli accennati schieramenti politici di oggi ad uso tattico ed è da essi sfruttata per cercar di discreditare e di rendere odioso, anche, il concetto tradizionale del vero Stato. Per porre fine ad un tale equivoco, varrà qui fissare una distinzione fondamentale: quella fra Stato totalitario e Stato organico. Quanto alla scelta della terminologia, non è per fare delle concessioni agli avversari che noi non crediamo opportuno mettere sotto l’insegna del totalitarismo la concezione politica tradizionale che difendiamo. A tale riguardo siamo già giustificati dal fatto, che “totalitarismo” è un termine di recente data, è una parola moderna, come tale inseparabilmente legata a situazioni di un mondo, che in nessun modo può e deve servirci come punto di riferimento. Così è meglio lasciare che la parola designi proprio ciò che desiderano gli esponenti della democrazia, riferendo invece all’idea dello Stato organico quanto nel totalitarismo genericamente inteso può avere, malgrado tutto, un significato positivo. Così facendo, l’uno e l’altro concetto potranno venire definiti e contrapposti con sufficiente chiarezza. L’idea di uno Stato organico non è nata oggi. Ciò va tenuto presente di contro a coloro che se ne sono dimenticati come pure a coloro i cui orizzonti sono ristretti alla polemica fra “fascismo” e “antifascismo” quasi che prima dell’uno e dell’altro nulla fosse esistito al mondo. Quella di Stato organico è una idea tradizionale, onde si può dire che ogni vero Stato a sempre avuto un certo carattere organico. Organico è uno Stato quando esso ha un centro, e questo centro è una idea che informa di sé in modo efficace i vari domini; è organico, quando esso ignora la scissione e l’autonomizzazione del particolare e, in virtù di un sistema di partecipazioni gerarchiche, ogni parte nella sua relativa autonomia ha una funzionalità ed un’intima connessione col tutto. E appunto di “tutto” si tratta nel sistema in parola, di qualcosa di intero e di spiritualmente unitario che si articola e si dispiega, e non di una somma di elementi di un aggregato con un disordinato interferire di interessi. Gli Stati che presero forma nello spazio delle grandi civiltà tradizionali - avessero pur essi carattere di imperi, di monarchie, di repubbliche aristocratiche o di città-Stato – nel loro periodo migliore furono tutti più o meno di questo tipo. Una idea centrale, un simbolo di sovranità con un corrispondente, positivo principio di autorità ne costituì la base e la forza animatrice, e quasi per spontaneità gravitazione uomini e corpi sociali si trovarono in sinergia, pur conservando una loro autonomia essi svolsero attività convergenti in un’unica direzione fondamentale; gli stessi contrasti, le stesse antitesi avevano una loro parte nell’economia del tutto, perché esse non presentavano il carattere di affezioni disorganizzatici, esse non mettevano in questione la sovraordinata unità dell’organismo come tale, ma agivano piuttosto come un fattore dinamico e ravvivatore. Perfino “l’opposizione” del sistema parlamentare inglese del primo periodo rifletté un significato del genere (la si poté chiamare: His Majesty’s most loyal opposition), scomparso del tutto nel successivo regime parlamentare partitocratrico. Basta rileggere un Vico e un Fustel de Coulanges per rendersi conto del potere che l’ideale organico ebbe anche nell’antichità. E proprio nelle forme antiche viene in risalto il punto fondamentale: in esse l’unità non aveva un carattere semplicemente politico, bensì un carattere spirituale, spesso senz’altro religioso, la sfera politica in senso stretto apparendo essa stessa formata e portata da una idea, da una concezione generale la quale si esprimeva anche nel pensiero, nel diritto, nell’arte, nel costume, nel culto, nella forma dell’economia. Uno spirito unico qui si manifestava in una varietà corale di forme corrispondenti alle varie possibilità dell’esistenza umana, e in tale quadro “organico” e “tradizionale” in senso ampio ci appaiono più o meno come sinonimi. Proprio la spiritualità dell’unità era ciò per cui il risultato poteva essere l’integrazione del particolare, non la sua compressione e coartazione. Un relativo pluralismo è un elemento essenziale in ogni sistema organico, come lo è una relativa decentralizzazione, per la quale il criterio è che essa può essere tanto più spinta, per quanto più il centro unificante ha appunto un carattere spirituale e in un certo modo trascendente, una sovrana potenza equilibratice, un naturale prestigio. Che tutto ciò sia stato talmente dimenticato, benché quasi fino ad ieri, prima dell’avvento del liberalismo, dell’individualismo e della rivoluzione in Europa, fossero sussistiti sistemi politici riflettenti ancora sensibilmente aspetti dell’idea organica, sistema che agli occhi dei più apparivano affatto normali e legittimi – ecco qualcosa che ad ogni osservatore oggettivo non può non apparire singolare. Ma questa è anche la ragione della confusione già accennata riguardante il totalitarismo, come pure del fatto che, con una ottusità da bestiame bovino, oggi, facendo il giuoco dei comunisti, non si sa che vedere ed accusare un “fascismo” dovunque sia quistione di un sistema diverso da quello glorificato dagli apostoli della democrazia e degli “immortali principi”. Ma il totalitarismo non rappresenta che l’imagine contraffatta dell’ideale organico. È un sistema in cui la unità è imposta dall’esterno, non in base alla forza intrinseca di una idea comune e di una autorità naturalmente riconosciuta ma per mezzo di forme dirette di intervento e di controllo esercitate da un potere puramente, materialisticamente politico, affermantesi come l’estrema ragione del sistema. Peraltro, nel totalitarismo è insita la tendenza livellatrice, l’insofferenza per ogni forma parziale di autonomia e per ogni grado di libertà, per ogni specie di corpo intermedio fra il centro e la periferia, fra il vertice e la base. In particolare, con esso si realizza una specie di sclerosi, di ipertrofia teratologica di tutto quanto è semplice struttura burocratico-amministrativa; tali strutture si fanno onnipervadenti soppiattando o comprimendo ogni attività particolare, non conoscendo limiti per una invadenza insolente del pubblico nel privato, tutto inquadrando in schemi privi di flessibilità e di elasticità e, alla fine, privi perfino di senso, perché, partendo da un centro di potenza uniforme, nasce una specie di piacere intrinseco e tetro per quest’opera di livellamento ad ogni costo. Per quel che riguarda il lato più materiale, cioè l’aspetto economico – aspetto predominante in un’ “era economica – la superorganizzazione, la centralizzazione e la razionalizzazione ad oltranza hanno una parte essenziale in questo tipo rigido e meccanicistico di unità. La quale, se nell’età contemporanea ha manifestazioni precipue, tuttavia anche in altre epoche si era qua e là preannunciata: però sempre nelle fasi terminali, crepuscolari di un dato ciclo di civiltà. Fra gli esempi più noti si possono infatti ricordare le forme della centralizzazione burocratico-statale che si realizzarono al declino dell’Impero romano, dell’Impero bizantino e già di quello persiano; al che doveva seguire nell’un caso come negli altri, la definitiva dissoluzione. In effetti, proprio esempi del genere indicano il luogo proprio e il senso delle centralizzazioni “totalitarie”: esse fanno sèguito alla crisi e alla dissoluzione di unità anteriori di tipo organico, allo sciogliersi e al passare allo stato libero di forze già uniti da una idea in una civiltà differenziata e in una tradizione vivente, forze che ora si cerca di padroneggiare e di riprendere in modo violento e intrinseco in un ordine, senza nulla più che abbia carattere di vera, riconosciuta autorità, senza nulla più che possa davvero legare dall’interno i singoli. È così che nel precedente capitolo abbiamo detto che le forme totalitarie o semi-totalitarie spesso nascono come una inevitabile reazione alla disintegrazione liberalistico-individualistica. In altre epoche tutto ciò si ridusse alle ultime reazioni, dalla breve durata, di un’organismo politico già condannato e senile. Nel mondo moderno, per la predominanza dei fattori materialistici, economici e tecnicistici, il fenomeno può avere una certa stabilità – il comunismo dell’URSS di ciò è l’esempio più tipico –senza però che il significato ne sia diverso. In effetti, l’imagine acconcia per questi processi ci è offerta dall’analogia con gli organismi: dopo essere stati viventi e mobili, in essi subentra l’irrigidimento proprio al corpo che diviene cadavere; stato, questo, il quale a sua volta fa luogo al disfacimento come fase terminale. Si possono pertanto rilevare, nelle forme in parola, due processi che mentre sembrano corrente in senso opposto e, entro dati limiti, perfino compensarsi a vicenda, in ultima analisi convengono in un unico effetto. Il totalitarismo, mentre reagisce contro l’individualismo e l’automismo sociale, porta finalmente a termine le devastazione di ciò che in una società può ancora sussistere della fase “organica”: qualità, forme articolate, caste e classi, valori della personalità, libertà vera, audace e responsabile iniziativa, valori eroici. Un organismo di tipo superiore comprende funzioni molteplici che mantengono il loro carattere specifico e una relativa autonomia pur coordinandosi integrandosi reciprocamente, convergendo in una unità superiore che mai cessa di essere idealmente presupposta. Così in uno Stato organico vi è tanto unità che molteplicità; vi è gradualità, vi è gerarchia, non s’incontra il binomio di un centro e di una massa informe. Proprio questo si ha invece nel caso del totalitarismo: per affermarsi, esso livella. In fondo, è sul mondo organico della quantità a cui ha condotto la disgregazione individualistica, non su quello della qualità e della personalità, che esso poggia e sul quale conta – come noi già dicemmo. In un tale sistema l’autoritarismo si riduce – per usare una imagine del Toynbee – a quello sergente istruttore e da pedagogo con la frusta in mano. Un’obbedienza che non è anche riconoscimento ed adesione, il conformismo, al massimo forme irrazionali di aggregazione fra cui serpeggia una sinistra, fanatica, cieca capacità di sacrificio – ad esso bastano. Il tutto ha in fondo, un carattere anodino, perché manca una vera autorità, epperò mancano anche, negli altri, impegno vero, senso della responsabilità, dignità di essere liberi che questa autorità riconoscono e si ordinino in un unico schieramento efficiente. Su tale base, il totalitarismo è effettivamente una scuola di servilismo e, in-fondo, una estensione peggiorativa del collettivismo: non è una influenza dall’alto e verso l’alto a trasportare e unificare, ma un potere senza forma che si è cristallizzato in un centro, per assorbire, piegare, meccanicizzare, controllare e uniformizzare tutto il resto. In tali termini due prospettive restano ben visibili nella loro antitesi: antitesi, che innalzi tutto deve essere intesa come quella dello spirito dei due sistemi. Ciò va tenuto presenteriguardo a quelle speciali situazioni d’ordine soprattutto economico che impongono un rafforzato intervento coordinatore e regolatore dei poteri centrali, come ne è il caso nei tempi ultimi. Anche in tali circostanze, in cui per via di una congestione di forze e di una complessità di fattori altrimenti difficili da controllare, al cosidetto “dirigismo” deve esser dato un non indifferente margine, è possibile mantenere come principio informatore l’idea organica, in opposto ad ogni totalitarismo: lo si vedrà, ad esempio, quando parleremo del corporativismo. Ancor un rilievo in fatto di terminologia. Statolatria e statalismo sono due espressioni oggi spesso usate con intenti polemici, più o meno come lo si fa con “totalitarismo”. Da quanto si è detto precedentemente ognuno vede già che cosa si deve pensare in proposito. L’istanza polemica cade a vuoto quando essa miri a contestare la preminenza che spetta legittimamente al principio politico dello Stato di fronte a “società”, “popolo” “comunità nazionale” e, in genere, a tutta la parte economica e fisica di una organizzazione di uomini. Disconoscere tale preminenza – dicemmo – equivale a negare quello stesso principio nella sua realtà e funzione propria, in contrasto con ciò che appare invece essere una “costante” del pensiero tradizionale. Pertanto non vi è nessuno bisogno di usare la parola di nuovo conio “statalismo”, avente sempre una certa sfumatura negativa, per esprimere l’anzidetta preminenza. Quanto alla “statolatria”, occorre esaminare a fondo la base effettiva dei due principi fondamentali dell’imperium e dell’auctoritas. Occorre appena dire che esiste una differenza profonda, sostanziale, fra il caso in cui si divinifica e si rende assoluto ciò che è profano, e il caso nel quale la realtà politica trae la sua legittimazione da punti di riferimento anche spirituali e, in un certo modo, trascendenti. Vi è usurpazione e feticismo nell’un caso, non ve ne è nell’altro, e solo ove si tratti del primo è lecito parlare di statolatria. La statolatria rientra pertanto nello stesso quadro del totalitarismo; il suo limite è la teologia, o mistica, dello Stato totalitario onnipotente, avente per sfondo la nuova religione terrestre dell’uomo materializzato. Per converso, la concezione organica presuppone appunto qualcosa di trascendente, di dall’ “alto” come base dell’autorità e del comando; senza di ciò, verrebbero automaticamente a mancare le connessioni immateriali, sostanziali delle parti col centro, l’ordine interno delle singole libertà, l’immanenza di una legge generale che guida e sorregge senza costringere, infine, la disposizione superindividuale del particolare, senza la quale ogni decentralizzazione e articolazione finirebbe col costituire un pericolo per l’unità del tutto. Ammettiamo che al giorno d’oggi, dato il clima di generale materializzazione e desecralizzazione, non è facile additare soluzioni conformi a questa seconda prospettiva. Ma sta di fatto che anche nella realtà politica moderna si conservano non indifferenti residui, i quali senza un riferimento di tal genere avrebbero un carattere assurdo. Tale è il caso, ad esempio, del giuramento. Il giuramento trascende le categorie del mondo profano e laico. Ma noi vediamo anche gli Stati moderni, Stati democratici, laici, repubblicani e simili, richiedere il giuramento e perfino obbligare ad esso; vediamo magistrati, vediamo ministri, vediamo soldati giurare. Il che rappresenta un assurdo o addirittura un sacrilegio quando lo Stato, in un modo o nell’altro, non incarni un principio spirituale: l’altra alternativa sarebbe appunto statolatria. Ove il senso di ciò che davvero significa un giuramento non sia andato completamente perduto, come si può accettare di giurare, o come si può esigere che si giuri, se lo Stato non è nulla più di quel che vogliono le moderne ideologie “illuminate”? Una autorità secolare – weltliche Obrigkeit, per usare il termine luterano – in quanto semplicemente tale non ha alcun diritto di esigere un giuramento, in nessun caso. Per contro, noi incontriamo il giuramento come un elemento essenziale normale e legittimo nelle unità politiche di tipo organico e tradizionale: e, per primo, tale è il caso per il giuramento di fedeltà, come un vero sacramento – sacramentum fidelitatis; la dignità che esso ebbe, ad esempio, nel mondo feudale è ben nota. Proprio nel segno del cristianesimo esso costituì, allora, il più terribile dei giuramenti; secondo le parole di uno storico, esso “faceva di coloro che sacrificavano la loro vita per restarvi fedeli dei martiri, e dei maledetti di coloro che lo violavano”. Il che non è privo di relazione con un secondo punto. Nelle concezioni di tipo comunitario e democratico ricorre l’idea di sacrificio e di servizio. L’altruismo, la subordinazione e lo stesso sacrificio del singolo per l’interesse generale sono da esse più o meno pietisticamente fatte delle parole d’ordine. Ora, in ciò vi è di nuovo una statolatria o almeno una sociolatria, in ogni caso un feticismo. Devesi domandare quale senso possono avere quegli appelli nel quadro di una organizzazione il cui fondamento sia puramente “positivo”, contrattualistico, come appunto si presuppone. Certo, esistono anche forme affatto istintive, irriflesse, irrazionali della capacità di sacrificarsi, tanto che codesta capacità talvolta la ritroviamo perfino fra gli animali; di questo tipo istintivo e naturalistico è, ad esempio, il sacrificio di una madre per i figli. Ma sono, queste, disposizioni che cadono al di qua della sfera nella quale si definisce il concetto di “persona”, quindi anche della sfera politica in senso proprio. Ora, come in una tale sfera le cose si presentino, lo ha messo in luce l’Hòfler con un raffronto assai adeguato: si imagini una società per azioni, la quale riproduce proprio il tipo di una comunità di interessi su pura base contrattualistica. Ebbene, in una tale società esigere che uno degli azionisti si sacrifichi in una qualunque misura in vista del comune interesse e, ancor di più, di quello di un qualche altro azionista, apparirebbe come un assurdo puro: perché il tutto, il nesso comune, ha per fondamento e per unica ragione sufficiente l’interesse individuale utilitario del singolo. Ma le cose non stanno diversamente in una società o in uno Stato privo di qualsiasi crisma spirituale, privo di una dimensione trascendente; non vi è che feticismo, statolatria o sociolatria quando in un simile Stato si fa appello ad un agire secondo un principio diverso dal puro tornaconto individuale o da motivazioni soggettive affettive e passionali. E a nulla giovano certi surrogati a base di “Stato etico” o simili, con le loro confuse identificazioni dialettiche dell’individuale con l’universale, cosé che si riducono tutte a giuochi di bussolotti speculativi, perché per l’insieme vale una concezione affatto “laica” e “umanistica”, e chi non si accontenta di parole, come base dell’ “eticità immanente”, dell’ “universale” e simili trova un ben nulla, cioè, peggio ancora, trova una retorica al servizio del sistema. Il quale, quando si sviluppa in un totalitarismo coerente, sa che una tale retorica o mistica non vale tanto quanto un buon sistema organizzato di terrore; in tal caso, ognuno sa però propriamente con che cosa abbia a che fare – e che così sia liquidata la mitologia “idealistica” creata intorno a forme politiche intimamente sconsacrate, ciò è da giudicarsi perfino come un realismo purificatore. Per ultimo, un cenno su una formula che nella polemica democratica oggi viene spesso associata a quella del totalitarismo: la formula del partito unico. Il fascismo ebbe ad affermare essere, lo Stato, “il partito unico che governa totalitariamente la nazione”. È, questa, una formula poco felice, diremmo ibrida, residuo della concezione partitistico-parlamentare in essa associandosi ad un’istanza d’ordine superiore. Di rigore, “partito” significa parte. Allora “partito unico” sarebbe una nozione o contraddittoria o aberrante, quasi come se la parte volesse essere il tutto o dominare il tutto. In pratica, la nozione di “partito” appartiene alla democrazia parlamentare e sta a significare una organizzazione che difende una data ideologia, di contro ad altre sostenute da altri gruppi, ai quali il sistema riconosce lo stesso diritto e la stessa legittimità. In questi termini il “partito unico” è quello che, in un modo o nell’altro, “democraticamente” o con la violenza, riesce a scalare lo Stato e, giunto a ciò, non tollera più altri partiti, usa lo Stato come suo strumento, impone in quanto fazione la sua particolare ideologia alla nazione. In questi termini, l’idea di “partito unico” è indubbiamente problematica. Ma anche qui gli avversari fanno d’ogni erba un fascio; non considerano il caso di sviluppi, per via dei quali tali aspetti negativi e contradittori possono essere rettificati e da un dato sistema si passa ad un altro. La loro critica perde già ogni peso ove, invece di “partito”, si parli semplicemente di minoranza; perché, quando si tratta dell’idea che, non in figura di partito, bensì di minoranza o èlite politica, un dato gruppo di uomini controlli lo Stato, in ciò si ha qualcosa di perfettamente legittimo, anzi una necessità di fatto per ogni regime politico. Così va detto che un partito che si fa “partito unico”, con ciò stesso dovrebbe cessare di essere “partito”. I suoi uomini o, almeno, i più qualificati di essi, allora è nella veste di una specie di Ordine, di classe specificamente politica che dovrebbero presentarsi e governare, non costituendo uno Stato nello Stato, ma andando a presidiare e rafforzare le posizioni-chiave dello Stato, non difendendolo una loro particolare ideologia ma incarnando impersonalmente la stessa pura idea dello Stato. Il carattere specifico del rivolgimento in tal caso lo si deve esprimere non con la formula del “partito unico”, bensì con quella dello Stato antipartitico e organico. Si tratta così soltanto del ritorno ad uno Stato di tipo tradizionale dopo un periodo di interregno e dopo speciali forme politiche di transizione. CAPITOLO QUINTO BONAPARTISMO – MACHIAVELLISMO ELITISMO Si deve a. R. Michels ed anche a. J. Burnham, che dal Michels ha ripreso le idee, la definizione del bonapartismo come una particolare categoria del mondo politico moderno. Il fenomeno del bonapartismo da tali autori viene indicato come una conseguenza a cui, in determinate circostanze, conduce lo stesso principio democratico della rappresentanza popolare, cioè il criterio politico del numero e della pura massa. Nell’opera Sociologia del partito politico nella democrazia moderna il Michels aveva cominciato con l’indicare le cause, sia tecniche, sia psicologiche, per via delle quali la legge ferrea delle oligarchie si riafferma anche nel quadro di qualsiasi sistema di rappresentanza democratica: è fatale che, ad onta delle istituzioni formali e delle dottrine democratiche, il potere effettivo nelle stesse democrazie finisca nelle mani di una minoranza, di un piccolo gruppo che di fatto si renderà più o meno indipendente dalle masse, una volta che da esse sia riuscito a farsi a farsi portare al potere. L’unico elemento distintivo sta nell’idea, che l’oligarchia in tal caso rappresenterebbe il “popolo”, ne esprimerebbe la “volontà”: a tanto si riduce la famosa formula dell’ “autogoverno del popolo. È una funzione, un mito, il quale si da sempre più a conoscere come tale con gli sviluppi che conducono fino al bonapartismo. I due sociologhi sopra indicati rilevano che, una volta ammesso il principio della rappresentanza, il bonapartismo, anziché come l’antitesi della democrazia, può venire considerato come l’estrema conseguenza di essa. Esso rappresenta un dispotismo basato su di una concezione democratica, che esso nega di fatto, ma che in teoria porta a compimento. Vi è solo da considerare, come faremo più oltre, l’ambiguità che da ciò risulta quanto alla figura, al tipo dei capi. Non ha torto il Burnhm nella sua opera “The Machiavellans” ha considerato il bonapartismo come una tendenza generale dei tempi moderni; si rende appunto a forme di governo in cui un piccolo numero di dirigenti, o un capo, pretende di rappresentare il popolo, di parlare e di agire in nome di esso. E poiché personifica la volontà del popolo, concepita come ultima ratio politica, il capo – dice Burnhm – finisce con l’arrogarsi una autorità illuminata a considerare tutti i corpi politici intermedi e tutti gli organi dello Stato come completamente dipendenti dal potere centrale, che, esso solo rappresenta legittimamente il popolo. Regimi del genere vengono spesso legalizzati democraticamente con la tecnica del plebiscito; una volta giunti a tanto, la formula dell’autogoverno del popolo, o formule equivalenti (“ la volontà della nazione” la “dittatura del proletariato”, la “volontà della Rivoluzione”, ecc.) vengono usate per distruggere o limitare fondamentalmente proprio quei diritti individuali e quelle particolari libertà che, in origine, e specie nelle assunzioni liberali di essa, si associavano all’idea di democrazia. Il Burnhm rileva pertanto che teoricamente il capo bonapartista può esser considerato come la quintessenza del tipo democratico; nel suo despotismo, è come se il popolo onnipotente guidasse sé stesso e disciplinare sé stesso: al suono degli inni ai “lavoratori” al “popolo” o alla “nazione” si formano queste moderne autocrazie. Per cui il “secolo del popolo”, lo “Stato del popolo”, la “società senza classi” o il “socialismo nazionale” – dice ancora il Burnhm – sono tante espressioni eufemistiche, o di copertura, il significato unico ed effettivo delle quali è il “secolo del bonapartismo”. Che, da ciò, ove i ritmi si accelerino e le strutture si stabilizzino, per linea diretta si giunga al totalitarismo, è cosa che risulta abbastanza evidente. Del bonapartismo sono noti gli antecedenti storici: le tirannidi popolari sorte, nell’antica Grecia, al decadere di precedenti regimi aristocratici; i tribuni della plebe; varie figure di principi ed anche di condottieri del periodo intorno alla Rinascenza. In tutti questi casi sono già presenti una autorità e un potere privi di un qualsiasi crisma superiore, cosa che si accentua nelle forme moderne, in essa i dirigenti ostentando, quanto mai prima lo si fece, di parlare e di agire esclusivamente in nome del popolo, della collettività, perfino quando come risultato pratico si abbiano un autentico despotismo e un regime di terrore. Otto Weininger ebbe a parlare del tipo del grande politico come di colui che è despota e simultaneamente adoratore del popolo, di colui che non solo prostituisce, ma che egli stesso è un prostituto, cosa che malgrado tutto la plebe istintivamente sente. Se è certamente abusivo estendere una simile veduta ad ogni tipo di capo politico, essa tuttavia coglie l’essenza più intima del bonapartismo. Si ha qui, una effettiva inversione di popolarità: il capo non sa valorizzarsi che riferendosi al collettivo, alla massa, stabilendo con essa, cioè col basso, una relazione essenziale. Proprio perciò non si esce, malgrado tutto, dalla “democrazia”: al contrario, anzi. Laddove al concetto tradizionale della sovranità e dell’autorità è propria la distanza, ed è il sentimento della distanza a destare negli inferiori venerazione, naturale rispetto e naturale disposizione all’obbedienza e al lealismo verso i capi, al fenomeno in cui ci stiamo occupando, è proprio l’opposto: da un lato l’abolizione della distanza, dall’altro la insofferenza per la distanza. Il capo bonapartista è e tiene ad essere un “figlio del popolo” – perfino quando di fatto sia qualcosa d’altro. Il principio che per quanto più vasta è la base, tanto più in alto deve trovarsi il vertice, egli l’ignora. È succube del complesso della “popolarità”; così egli tiene a tutte le manifestazioni da cui gli possa venire il sentimento, anche se illusorio, che il popolo lo segua” e lo approva. Qui nell’intimo è il superiore che ha bisogno dell’inferiore, quanto a sentimento di valore, invece che viceversa, come in via normale dovrebbe accadere. Ma vi è naturalmente la controparte: almeno nella fase dell’ascesa, della conquista del potere, il prestigio del capo bonapartista dipende dal fatto che la massa lo sente vicino, lo sente come”uno dei nostri”. In una tale situazione resta escluso a priori il potere “anagogico” (traente in alto) che di ogni vero sistema gerarchico è l’essenza e la superiore ragion d’essere. Resta vero invece appunto ciò che con crude parole ha detto il Weininger: un prostituirsi reciproco. A chiarire questo punto, riconosciamo che un qualsiasi potere per reggersi abbastanza a lungo ha sempre bisogno della base costituita da un sentimento collettivo; direttamente o indirettamente, esso deve aver modo di guadagnarsi dati strati sociali. Ma la cosa, nella situazione sopra accennata, presenta un carattere assai particolare. Facoltà molto diverse dell’essere umano reagiscono nei fenomeni politici a seconda della natura di ciò che possiamo chiamare il corrispondente “centro di cristallizzazione”. In altri termini, qui come altrove vige la legge delle affinità elettive, la quale si può formulare così: “Il simile risveglia il simile, il simile attrae il simile, il simile si raggiunge al simile”. La natura del principio su cui nei vari casi si fonda l’auctoritas è importantissima, appunto come pietra di prova delle affinità elettive e come fattore determinante del processo di cristallizzazione. Il processo presenta un carattere “anagogico” ed ha per effetto l’integrazione del singolo quando il centro del sistema, il suo simbolo fondamentale, è tale da fare appello alle facoltà e alle possibilità più alte dell’essere umano, da destare e muovere queste facoltà, da aver riferimento ad esse, o soprattutto ad esse, nell’adesione e nel riconoscimento da parte della collettività. Così vi è una differenza sostanziale fra l’adesione su cui si basa un sistema politico a carattere guerriero, eroico, feudale, o il cui fondamento sia spirituale o sacrale, e l’adesione che si ha invece nel caso dei movimenti che portano in alto un tribuno del popolo, un dittatore o un capo bonapartistico. Nella direzione, che noi giudichiamo negativa, il capo fa appello agli strati più bassi, quasi prepersonali, dell’essere umano, li adula, manovra con essi ed ha tutto l’interesse a che ogni più alta sensibilità sia per opera di essi inibita; anche per questo il capo qui si presenta democraticamente come un “figlio del popolo”, non come il tipo di una più compiuta umanità e l’affermazione di un superiore principio. Così il fenomeno ha un carattere regressivo, quanto ai valori della personalità; il singolo in questi movimenti o sistemi collettivi è menomato non tanto in questa o quella libertà esteriore – cosa in fondo di valore secondario – quanto nella sua libertà interna, nella libertà di sé di fronte alla parte inferiore di sé stesso, parte che il clima complessivo, come abbiamo detto, qui fa emergere, adula ed alimenta. Ma poi considerata come non irrilevante la differenza che si ha quando si ottiene un riconoscimento e si possiede un prestigio attraverso un promettere, ovvero attraverso un esigere. Nelle forme più basse, moderne, di democrazia è esclusivamente il primo caso che entra in quistione: non è tanto in base ad un’alta tensione ideale che si consolida il prestigio dei dirigenti, come in parte ne era ancora il caso nelle prime forme – con un carattere fra il rivoluzionario e il militare – del bonapartismo ma in base a prospettive “sociali” e “economiche”, a fattori e miti facenti appello alla parte puramente fisica del demos. Non è solo, nei dirigenti marxisti del “totalitarismo di sinistra” che ciò si verifica: l’una o l’altra soluzione della “quistione sociale” materialisticamente considerata è uno degli ingredienti fondamentali nelle tecniche moderne dei capi-popolo in genere, cosa che già di per sé basterebbe ad indicare la statura e il livello di questi ultimi. A totalitarismo e bonapartismo si associa abitualmente il concetto di dittatura. Per tal via siamo condotti a considerare anche l’equivoco proprio ad alcune concezioni che vorrebbero essere antidemocratiche, ma che dell’aristocrazia conoscono solo una imagine affatto distorta. Secondo il pensiero tradizionale è essenziale distinguere bene fra il simbolo, la funzione o li principio da un lato, e l’uomo quale individuo dall’altro; partendo da tale premessa, importa che l’uomo valga e sia riconosciuto in funzione dell’idea e del principio, e non viceversa. Nel caso del dittatore e del tribuno si ha invece l’altra alternativa, quella di un potere poggiante soltanto sulla persona e sulla sua azione sulle forze irrazionali delle masse, secondo quanto si è detto poco sopra. Nel secolo scorso, nel segno dell’evoluzionismo, si ebbero già delle interpretazioni delle aristocrazie e dell’èlitismo basate sulla “selezione naturale”, nelle quali l’incomprensione per ciò che è stato proprio alle antiche società gerarchiche, e che del resto anche dall’indagine storica positiva è stato sufficientemente riconosciuto, non avrebbe potuto essere maggiore. Poi è venuta la teoria romantico-borghese del “culto degli eroi” – heroes worship – cui dovevano aggiungersi gli aspetti più problematici della teoria nietzschiana del superuomo. Con tutto ciò si resta nel dominio di un individualismo e di un naturalismo incapaci di fondare una qualsiasi dottrina della vera, legittima autorità. Ma oggi i più, quand’anche ne ammettano il concetto, il fatto di “aristocrazia”, più o meno a tanto si arrestano: considerano l’individuo più o meno eccezionale e “geniale”, non colui nel quale si esprime una tradizione e una speciale “razza dello spirito”, non colui al quale non l’uomo, ma il principio, l’idea, in una certa tal quale, sovrana impersonalità, conferisce grandezza. E sul piano dell’individualismo si resta, naturalmente, anche nel caso del modello machiavellico del “principe” e dei derivati di esso. Il “principe” di Machiavelli non scende ancora tanto in basso – verso il “popolo” – quanto lo fanno i capi nell’era moderna della demagogia e della democrazia: egli naturalmente non crede affatto nel “popolo”, si preoccupa invece di conoscere le passioni e le reazioni elementari delle masse per trarne partito e esercitare una adeguata tecnica del potere. L’autorità non è più dall’alto: la sua base è semplicemente la forza, la virus del “principe”. Il potere, come puro potere di un uomo, qui vale come il fine supremo, tutto il resto – fattori spirituali e religiosi compresi – vale solo come un mezzo, mezzo da usarsi senza scrupoli. Una intrinseca superiorità non entra qui per nulla in quistione; il machevellismo considera solo una abilità politica unita a certe doti individuali di astuzia e di forza – l’imagine, ben nota, è quella della volpe unita al leone. Il capo qui non guarda alle facoltà più alte che, in determinate circostanze, possono venire ridestate nei suoi soggetti, nei riguardi dell’uomo in genere egli nutre un disprezzo e un fondamentale pessimismo, in base a un presunto “realismo”politico. Ciò fa si che il tipo machiavellico del despota almeno non prostituisce sé stesso: è lungi dallo esser dupe dei mezzi che adopera per impadronirsi del potere o per conservarlo. La finzione, la menzogna, lo sdoppiamento proprio all’attore ove occorre, lo preservano (1). Ma ciò non impedisce che i quadri simili non vi sia spazio alcuno pel concetto di una vera aristocrazia e di una effettiva autorità. Sviluppata, la linea conduce piuttosto verso le forme “dittatoriali”, definite parimenti da una preminenza individuale e da un potere informe, e verso l’epoca che qualcuno ha chiamato della “politica assoluta”. Il machiavellismo può considerarsi con una applicazione del metodo stesso delle scienze fisiche moderne al piano politico-sociale. Le scienze moderne, profane, della natura astraggono per principio da essa tutto ciò che ha carattere di qualità e di individualità, ne considerano il lato puramente materiale e soggetto alla necessità, e basandosi esclusivamente su di esso forniscono conoscenze che rendono possibile, con la tecnica, un ampio controllo delle forze delle cose. Esattamente lo stesso fa il machiavellismo nei riguardi delle forze sociali e politiche: operata un’analoga astrazione dal fattore qualitativo e spirituale e la stessa riduzione a ciò che è elementarmente fisico e materiale nel singolo e nelle collettività, esso fonda su una mera tecnica il dominio.questa è l’essenza del machiavellismo. Ora, nelle forme moderne del bonapartismo – soprattutto in quelle connesse al totalitarismo dittatoriale – si può ravvisare una mescolanza fra il concetto machiavellico del “principe”e quello del demagogo figlio della democrazia, inquantoché una mistica invertita conferente al capo il carattere chiamato da alcuni “carismatici”qui ha per controparte una tecnica perfezionata, del tutto priva di scrupoli e talvolta perfino demonica, quanto ai mezzi per stabilire il potere e controllare le forze irrazionali delle masse: “politica assoluta”, alla quale il valore possibile dell’uomo come libera personalità, è ignoto: come è ignoto, nei capi, quel rispetto verso sé stessi, verso la propria dignità, che è la condizione prima per ogni superiorità aristocratica. Ancor un punto va qui brevemente accennato. Il termine “bonapartismo” riporta naturalmente, oltre che ad un Napoleone III, a Napoleone Bonaparte, figura nei riguardi della quale si sarebbe ingiusti se non si distinguessero due aspetti, l’uno politico e l’altro militare. È chiaro che trattando del bonapartismo come categoria politica abbiamo avuto in vista solo il primo aspetto, quello per cui Napoleone non ci si-presenta tanto come capo militare, quanto come figlio della Rivoluzione Francese, lo spirito della quale, in essenza, nella stessa culminazione “imperiale”non fu negato ma sviluppato ed attualizzato. Su ciò, non vi è bisogno di fermarsi ulteriormente. Quanto all’aspetto militare, non vi è certo nulla da eccepire circa il prestigio che un condottiero può acquistare, al contrario, anzi; ciò non ha a che fare né con la democrazia, né con la demagogia, si lega a fattori eroici e, come tutto quanto ha attinenza con l’ordine militare, integra l’idea stessa della gerarchia. Tutto sta a che l’anzidetto prestigio non vada oltre il piano ad esso proprio; e noi abbiamo voluto toccare anche questo punto nell’intento, già espresso, di distinguere il concetto superiore dell’autorità e dell’aristocrazia da suoi problematici surrogati e sottoprodotti. Per avere idee chiare a tale riguardo, il mondo antico ci è di nuovo d’ausilio. Nella più antica romanità, come pure fra i Germani e in altre civiltà, si distingueva abbastanza nettamente fra il rex da una parte, il duca o imperator dall’altra, nel secondo concependosi essenzialmente il capo militare che certe doti puramente individuali rendevano qualificato per determinate imprese. In termini diversi solo per il diverso campo di applicazione, la stessa differenza intercorreva fra il capo e chi riceveva poteri eccezionali, ma temporanei, per controllare situazioni interne difficili e di emergenza e si sa che in origine è in tali termini che si definiva il “dittatore”, al quale si legava una particolare tradizione o idea politica tanto poco, quanto allo stesso duca. Dell’uno e dell’altro tipo, diversa era pertanto la natura, diversa la funzione, diverso il prestigio. Non sono da mettersi semplicemente a carico di una mentalità “mitologica” anacronistica, statuizioni come quelle dell’antico diritto germanico, imponenti la scelta del rex non fra coloro che, come nel caso del dux o heretigo, spiccavano per particolari qualità umane di individui, ma fra coloro che venivano da una linea “divina”. Tale idea può essere smitologizzata e, volendo, formulata nei termini di una semplice contrapposizione tipologica. L’essenziale è un riferimento verso l’alto, non verso il basso, del vero capo, occorre che in lui qualcosa di super personale e di non-umano si faccia valere quale pur sia, a seconda delle circostanze e dell’ambiente storico, la forma che questo elemento di “immanente trascendenza”, connesso di solito ad una tradizione, può rivestire. Ciò è assai differente da quanto è proprio allo stesso “eroe” e al capo militare o dittatoriale. A voler usare termini estremo-orientali, si può parlare di due forme di autorità, facenti capo, nell’un caso, a chi vince o s’impone senza aver bisogno di lottare, nell’altro, a chi vince o s’impone avendo bisogno di lottare. Nel primo caso è essenzialmente un elemento per così dire olimpico ad affermarsi naturalmente nella sua superiorità, come una “attività non agente”, cioè esercitantesi non per vie dirette materiali, ma soprattutto spiritualmente. Nell’altro caso, ci si trova ancora su un piano abbastanza alto quando si tratta del dux, del condottiero (specie se formato da una severa tradizione, come è stato il caso, ad esempio, nei tempi moderni, pel corpo degli ufficiali prussiani), ma il livello scende se si producono interferenze politiche nel senso di usurpazioni dittatoriali, sino a che il limite inferiore è raggiunto quando appare il capo bonapartistico nel senso anzidetto di una mescolanza fra il tribuno demagogico erede della democrazia e l’uomo machiavellico esperto in una tecnica degradante e cinica della potenza. Con tutto ciò sono dati, speriamo, sufficienti punti di riferimento per orizzontarsi quanto alla fenomenologia che presenta l’idea di capo, quanto al limite superiore e al limite inferiore che le varietà di essa trovano in due sistemi del tutto antitetici come spirito. Al che si allaccia un’ultima considerazione. “Aristocrazia”, in fondo, è un concetto indeterminato. Letteralmente, “migliori” è un termine relativo. Si deve chiedere: Migliori, in funzione di che, in vista di che? Possono esservi “migliori” gangsters, “migliori” tecnocrati, “migliori” demagoghi e via dicendo: per cui è evidente che bisogna anzitutto precisare, in base a che cosa si definiscono i valori che debbono dare ad una società o civiltà il suo volto, il suo carattere superiore: a seconda dei casi, si avranno “aristocrazie”, ed anche èlites, ben distinte. Ciò mostra il limite proprio alla sociologia del Pareto, con riguardo alla cosidetta legge della rotazione delle èlites, quale il Pareto l’ha formulata. Il punto di partenza è, qui, la constatazione del carattere fatale dell’èlitismo, della legge ferrea delle oligarchie. Ma nel Pareto il tutto resta sul piano formale perché, nei mutamenti che il fenomeno costante ammette, il fattore qualificativo, spirituale, non viene considerato. L’èlite qui presenta il carattere di un’astratta categoria, e nella “rotazione”, o cambio della guardia, che si produce non vengono considerati significati specifici e mutamenti di valore, ma processi di un dinamismo sociale quasi meccanico e indifferente. In sostanza il Pareto si limita a studiare la parte che, volta per volta, hanno quelli che egli chiama i “residui delle combinazioni”, cioè, in parole correnti, le forze di conservazione e le forze di innovazione, di rinnovamento e di rivoluzione – ma, appunto, senza che ci si dica “conservazione di che cosa” e “innovazione di che cosa”. All’esaurirsi delle possibilità vitali di una data classe dominante si verifica una circolazione di elementi – un ascendere degli uni e un discendere degli altri – di là dalla quale si mantiene il fenomeno della èlite: di una èlite in genere, della èlite, come si è detto, quale categoria astratta. Ciò ha relazione con la metodologia stessa propria al Pareto, la quale dà ad ogni principio, idea, valore o dottrina il semplice carattere di “derivazione”, cioè il fenomeno secondario e dipendente, di cosa che non ha un sé forza determinante, ma che esprime variamente tendenze elementari, uniformi e irrazionali (i “residui”, esse solo considerate come efficienti. Per noi le cose si presentano in modo del tutto diverso, perché l’elemento primario ed interessante per noi è rappresentato non dal sussistere del fenomeno astratto “èlite” di là dalla rotazione o cambio di guardia delle singole èlites, ma viceversa, dal mutamento dei valori e dai significati che si realizza quando ad una èlite ne succede un’altra, quando è una èlite, anziché un’altra, che va ad occupare il centro e a dare il tono a tutto il sistema. Ora, appunto circa le trasformazioni in tal senso, e quindi circa le varietà dell’èlitismo, le considerazioni da noi svolte hanno voluto dare un ragguaglio. Dal punto di vista storico, il passaggio dall’una forma di èlite (o di “aristocrazia” in genere) ad un’altra ha seguito una legge precisa, quella della regressione delle caste, sulla quale qui però non ci soffermiamo, avendone trattato esaurientemente nella nostra opera principale, “Rivolta contro il mondo moderno”. (1). Accenneremo solo che, nel complesso, vanno distinti quattro stadi: nel primo l’elite ha carattere puramente spirituale, incorpora ciò che in genere si può chiamare un “diritto divino”, esprime un ideale di virilità immateriale; poi essa ha un carattere di nobiltà guerriera, in terzo luogo viene la oligarchia a base plutocratica e capitalistica nel quadro delle democrazie; infine l’èlite è quella dei capi collettivistici della rivoluzione del Quarto Stato.
Posted on: Sat, 16 Nov 2013 22:19:09 +0000

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