VI - ISRAELE Un lungomare. Lumi bianchi, schiacciati. Vecchi - TopicsExpress



          

VI - ISRAELE Un lungomare. Lumi bianchi, schiacciati. Vecchi lastrici, grigi d’umidità tropicale. Scalette, verso la sabbia nera; con carte, rifiuti. Un silenzio come nelle città del Nord. Ecco ragazzi con blu-jeans color carogna, e magliucce bianche, aderenti, sudice, che camminano lungo le spallette - come algerini condannati a morte. Qualcuno più lontano nell’ombra calda contro altre spallette. E il rumore del mare, che non fa ragionare... Dietro il largo d’un marciapiede scrostato (verso il molo), dei ragazzi, più giovani; pali; cassette di legno; una coperta, stesa sulla sabbia nera. Stanno lì sdraiati; poi due si alzano; guadagnano l’opposto marciapiede, lungo luci di bar, con verande di legni marci (ricordo di Calcutta... di Nairobi...) (Una musica da ballo, lontana, in un bar di hotel, di cui arriva solo un zum-zum profondo, e lagni cocenti di frasi musicali d’oriente.) Entrano in un negozio, tutto aperto... tanto più pieno di luce quanto più povero, senza un metallo, un vetro... Riescono, ridiscendono. Mangiano, in silenzio, contro il mare che non si vede, ciò che hanno comprato. Quello disteso sulla coperta non si muove; fuma, con una mano sul grembo. Nessuno guarda chi li guarda (come gli zingari, perduti nel loro sogno). Un alberghetto sonoro (misero calco di jolly, quale puoi trovare in periferie di Benevento o Avellino): è qui che penso ingenuamente a domani come al giorno di San Pietro e Paolo - e che quindi il mio nome - il mio destino - sono nell’ultimo frutto dell’ultimo ramo di un albero grande come i secoli: ma qui sono al primo frutto, e al primo ramo, e tra quel me e questo me, c’è, della Chiesa, la pianta futura un successo non successo, una coesistenza inesistente: e, come ogni cosa che deve essere, atrocemente estranea: guardo laggiù, in occidente, quale assurda sede - amate rive! - del Seme che poi - come doveva - crebbe, mutandone chissà quali barbare, quali sante prospettive del popolo... ...................................................................... Ultima fogliuccia, dunque, di tanto fogliame (tanto quanti sono gli anni, i mesi, i giorni, della nostra epoca umana quanti sono i vissuti, in Gallie, in Castiglie, in Irlande, in vecchi reami del Sud, catene incalcolabili per duemila miseri anni...), ultima fogliuccia di tanta foresta, è un nome da cui sono occupato... Soffia un vento che vibra come canne di metallo, senza fine. ....................................................... Di Lui non ho trovato che un avvilito odore d’insetticida, in una cameretta, quale si può abitare nei paesi della Bassa Italia, un lettino dal materasso sottile e duro, un lavandino dove l’acqua non viene giù. ... Kafka poi avrà supposto questa scaletta che introduce all’hotel, con pedana per pianoforte, televisione: nel fondo del fondo di tutte le colonie, con sangue d’uomini come di vitelli, pendii e pendii inabitati, campi lasciati morti - e ora terra libera - mai libertà fu più impastata di morte, sua faccia. Non ce l’avete fatta più, fratelli - fratelli maggiori per dolore - segnati dalla grandiosità del male, e siete scappati quaggiù, siete venuti a raccogliervi quaggiù, come quando si vuol morire e non morire, ammucchiandovi come le pecorelle che credono il calore delle sorelle coraggio. Il trauma, così passato di moda oggi nel mondo, di venti, di venticinque anni fa, qua lo conservate, avete cercato quest’area marginale, per preservarlo, istituzione d’origine divina! Così, sopra una collina siriana, brutta come ciò ch’è restato nudo di storia, non più che un cieco pezzo di natura, conservate l’aria del mondo degli Anni Quaranta. E io servito da timidi, inibiti camerieri (i capelli dritti sulla nuca, i colletti gonfi, quali non possono avere giovani del popolo), vedo per allucinazione un’ora spaventosa della vostra storia: dico la nostalgia dell’Europa. Giro in un kibutz, dove il sole e il silenzio sono quelli della domenica. Chi, nel suo mistero, ha scelto raccoglimento quasi voltando le spalle al mondo, immusonito, con pochi conoscenti, chi sulla spiaggia, a bere la birra, a un bar riempito dal tonfo della marea del lago. Ma il sole, il silenzio sono padroni come in qualsiasi suolo d’Europa, e le angoscie e le felicità di ognuno a quel sole, a quel grande silenzio, hanno una quasi monacale assolutezza. Ah, quale agio, quale diritto di riposo, quale immemore pace di gente anonima, in chi ha in cuore l’odio dell’invasore - curioso invasore, bambino, inoffensivo, puro: che si trova davanti alla sua colpa come a una cosa aliena, non prevista nell’affanno dell’obbedire a Dio. E i nemici, rei d’irragionevole pietà per la propria terra - che l’inconscio sospinge dai domini dell’amore a quelli dell’odio - resuscitando così l’assurda cronaca a destino - sono lassù a odiare, loro, di solo odio, angeli sui loro monti inattingibili. Attesi, come attendono le spose gli uomini al loro. Tornate, ah tornate nella vostra Europa. Un transfert tremendo di me in voi, mi fa sentire la vostra nostalgia che voi non sentite, e a me dà un dolore che sconvolge ogni rapporto con la realtà. L’Europa non è più mia! Varsavia, Praga, Roma sono laggiù tolte per sempre alla mia vita a continuare una vita di cui fui figlio e protagonista e che ora pian piano mi sfugge nel colore dei giorni d’Occidente fatti estranei ai miei occhi! Lungo gli 85 km tra Tiberiade e il mare. Rimboschimenti di ulivi, scuri nel senso di ostilità che da chi è in colpa o ha paura. I piccoli degli arabi, essi sì, ridono, ridono scioccamente, con una struggente stupidità, come i nostri poverelli; i cuccioli del popolo affamato, le bestioline con gli stupendi occhi umani: neri come fiele, che si riempiono di riso, dietro la siepe delle ciglia di pece, come fossero zucchero, calore di fiori. Il riso inutile, di chi è nato a un solo destino. Le bambinelle - ridendo solo perché gli si ride - muovono la testa come staccata dal busto, passando per istinto dal riso alla danza. Ed ecco oltre gli ulivi israeliani, maculati di laboriosa polvere, le case di legno e latta, le felici bidonvilles. Ma ecco anche, al centro della regione, come un convento benedettino in Ciociaria, l’edilizia concentrazionaria di un kibutz. Povera gioventù, là, che non ride. ..................................................................... Mentre appoggiato al cofano dell’automobile segno cabale d’apprendista, incerto ricercatore dei luoghi di Dio, viene, dietro un paio di cammelli, al suono di clacson delle macchine dei miti dominatori, un giovane arabo, coi blu-jeans e la magliuccia bianca, le mani sui fianchi stretti dalla cintura - con la gran fibbia sotto l’ombelico, e il cavallo dei calzoni basso, come per torbido peso. Coi denti di pietra. Ha la faccia uguale a quella di noi ebrei. Ma nella nostra, ahi, non solo non c’è mai rabbia, né odio, ma nemmeno la possibilità della rabbia, dell’odio. Lui sì ce l’ha. Così com’è uomo. La sua certezza esistenziale, rinfaccia, dolce, la crudeltà della razza, a noi ebrei, anzi israeliani, che con l’inabilità dei miti, stringiamo le armi in mano, vogliamo finalmente che la violenza della ragione, conosca l’umiltà della rabbia e dell’odio. Indi, la testimonianza di una implicazione, che comprende tutta la storia, anche, certo, la più bella (...Vennero, un secolo, dei Crociati, biondi - io direi lombardi, celti, direi - piuttosto che quelli di cui Hitler incancreniva innamorato, prussiani o inglesi - o i danesi che fotografa Dreyer - o gli svedesi albini delle storie boreali di Bergman - vennero quei crociati poveri, parenti di Salimbene, il mio vecchio padre padano, appenninico, con le faccie un po’ distorte dal poco sole delle rive del Po, e rossicce per fuochi di focolari, o vino di brolo, vennero - ed ecco qui questo biondo di baresi, o di molli biechi tarantini: innocentemente privi di patria, o altre passioni, come chi non ha nulla di suo...) Si chiamano, poverini, Drusin, arabi non arabi, abitanti di paesi di tufo, rocche disfatte, come i loro cugini delle conche del Garigliano, o del Timavo, sacche umane di storia piene alla vita che non ha fine. Mentre... «I nostri ragazzi sono come i fiori del ficodindia, aspri di fuori, dolci dentro,» dicono dei loro figli i signori di Baharam, quattro magazzini, il silos, l’asilo, i dormitori come quelli di Dachau: e la pace di un villaggio del Centroeuropa ambiguamente fusa con la pace coloniale; dicono a me, che contesto loro l’ansia di quei ragazzi, la vecchia nevrosi dipinta nel viso. Come fossero miei! E infatti - sono miei figli, gli unici di cui potrei dirmi padre, poveri fiori di ficodindia, che non ridono. Fersen, italiani, Razon, francesi: complici in questo esperimento del figlio in comune, fuori dal covo dei complessi e del tremendo amore, materno paterno. Sono indietro nel tempo, in un ingiallimento feroce, lo so, come quello delle fotografie del ‘44, e più antico ancora: compiono, ligi, ciò che il destino umano, senza età, ripete nei millenni, cuccioli, papà, e il Dio che rende miti, rigido. Una giornata a Tel Aviv: fraterni passanti presi dal loro destino; e i loro figli, a quel destino ancora lontani, con la libertà che gliene viene - e la superiorità - dato che tutto può essere, per loro, nel futuro... In questa gloria, ch’è fuori di loro, e su essi non c’è che la sua luce, come quella del sole di mare che assedia cieco la città dove vivono, coltivano gli atti del loro giorno: non hanno lo spasimo della vita che se ne va, come noi padri non padri, prefigurando così l’indifferenza che sarà la loro vita. Ma sono Ebrei. Perché si comportano così, come figli di borghesi ariani, delle grandi, stupide stirpi d’occidente? Perché questo stato d’impoeticità? Non sono qui forse per essere uccisi? Non lo sanno? Perché questi sguardi di figli-padri, di fronte a cui i loro padri non sono che misere, fetide bestie nei cortiletti dei campi di sterminio, nei treni merci già pieni di morti? Da quei vermi sublimi, essi nacquero: e adesso rinfacciano loro la morte che è la loro vita? Li vogliono vincitori: ma, forse, non lo sono? Passeggiano, si radunano, belli, per le vie della loro città, come a Piazza del Popolo o Montmartre, molti, imberbi, in vesti militari: e, dal destino diverso che immaginano, gli confluisce negli occhi arcaici una luce che ne cancella il dolore: e sono come tutti gli altri ragazzi del mondo. L’ebreo per cultura ed elezione, adesso, li guarda deluso: se questa è esistenza assurda è la sua delusione, ma se non lo è, quanto amore per i padri mitemente morti!
Posted on: Thu, 24 Oct 2013 16:20:53 +0000

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