VI. Avete mai visto un giocatore di dadi che perde e, mentre tutti - TopicsExpress



          

VI. Avete mai visto un giocatore di dadi che perde e, mentre tutti gli altri hanno già lasciato il tavolo, continua a giocare per sfidare il caso? Dimenticatelo. Prendete invece in considerazione quello che ha vinto, e che prendendosi il palco deve quasi difendersi dall’orgia di approvazione e amicizia che riscuote: io stavo in quella turba come il vincente, più infastidito che altro, promettendo a tutti senza sapere se avrei potuto mantenere. Tra gli altri c’erano Benincasa da Caterina, che fu decapitato dal brigante Ghino di Tacco nel bel mezzo di un’assise di giudizio, e Guccio dei Tarlati, che morì annegato cacciando. Poi Federico Novello, vicario di Manfredi a Firenze, e Gano di Marzucco, che non volle vendicare la morte del figlio assassinato. E ancora, il Conte degli Alberti, e Pier della Broccia, ucciso dall’invidia piuttosto che da qualche colpa commessa, ancora oggi sospetto di essere un falso accusatore: egli difatti svelò l’assassinio di Luigi figliastro di Filippo l’ardito, opera di Maria di Brabante, che tramite quell’omicidio fece accedere al soglio regale il figlio Filippo il bello. Tutti mi stavano intorno pregandomi di chiedere preghiere per le loro anime, cosicché divenissero degne di andare al Paradiso, e in quella gran confusione tutto quello che potei fare fu chiedere a Virgilio come fosse possibile che le preghiere dell’uomo potessero condizionare il giudizio divino. Non aveva forse scritto, nell’Eneide, che il fato voluto dagli Dei non è tangibile? Mi rispose che forse l’avevo male interpretato, e per lo più che la speranza di quegli uomini era permessa dal diritto canonico e dalla ragione umana: la carità delle preghiere poteva difatti condizionare il giudizio divino, accelerando il tempo dell’espiazione di quelle anime. Questo era tanto più valido quando volessi pensare che tra il suo tempo e il mio c’era stato Cristo: era della sua forza viva, che si nutrivano le parole e le preghiere del Dio cristiano, e la sua grande provvidenza. Virgilio volle poi dirmi di non questionare troppo: i miei dubbi sarebbero stati presto sciolti dal lume della teologia, che concilia la verità e la ragione – lume che avrei presto visto incarnato nella figura di Beatrice. Io gli chiesi di accelerare il passo, perché ero meno stanco di prima e stava calando l’ombra della sera, ed egli mi rispose che saremmo presto andati. Tuttavia volle dirmi che l’ombra dentro i miei occhi non era causata dalla sera, ma dal Monte che stava tra di noi e il sole, e aggiunse di andare verso un’anima solitaria che mi additò poco lontana: ci guardava, e probabilmente ci avrebbe indicato la via più rapida per l’ascesa. Giungemmo ben presto presso di lei, e notai subito come i suoi occhi rispecchiassero l’atteggiamento del suo corpo. Sia il suo sguardo che il suo stare erano alteri e sdegnati, come infastiditi. Andavano sulle cose lentamente, come gli occhi di un saggio. Non ci disse alcuna cosa, nemmeno c’impedì l’andare, mentre gli ronzavamo attorno: ogni cosa gli andava tra gli occhi indifferentemente, come negli occhi di un leone. Virgilio si avvicinò a quell’anima per chiederle quale fosse la strada più veloce per salire, e quella, invece di rispondere, ci chiese della nostra nascita e vita. Virgilio stava cominciando a rispondere, e fece appena in tempo a pronunciare la parola Mantova, quando quello si sciolse dalla sua posa nervosa e volle immediatamente dirgli d’essere anch’egli lombardo. Era l’anima di Sordello, e abbracciò Virgilio come un vecchio amico. Quell’abbraccio tra due nati dalla stessa terra mi fece pensare alle divisioni dell’Italia – a come fosse lacerata e quanto le mancasse qualcuno che non la volesse trattare come una serva o una puttana. Strano ma vero, ci voleva un mondo ultraterreno, per fare unire due che se fossero stati vivi si sarebbero uccisi per spartirsi i resti di un cadavere. Non c’è difatti immagine di seno, ma di tagliola, sui golfi del mio paese tanto bello quanto disperato, e non c’è imperatore o re che tenga, ove ognuno tira dalla sua parte senza pudore, facendo come la terra che esplode di sotto e separa i continenti. A che serve, frattanto, il diritto giustinianeo? L’Italia è un cavallo senza cavaliere, diretto a nessuna direzione, con la legge o meno. D’altronde le manca la coscienza di ciò che è di Cesare eppure di ciò che non lo è, è una terra selvaggia che non sopporta gli speroni dell’Imperatore, e segue le leggi infami di una Chiesa corrotta. Per quanto l’Impero non goda buona salute, maledissi nell’attimo di quell’abbraccio Alberto e tutta la sua stirpe inetta d’Asburgo: che gli cadesse tra il capo e il collo il giudizio di Dio, e che il figlio avesse potuto avere paura di quel giudizio e la forza di scendere ove l’Impero è nato e muore tra gli interessi di pochi ladroni! Sarà stato pur vero che Rodolfo suo padre era stato molto sfortunato, e altrettanto sfortunato era stato Alberto, ma a furia di accampare giustificazioni verrà il tempo in cui ci uccideremo tutti senza molti pudori. Sperai per un attimo che Alberto giungesse al suono delle mie parole, cosicché potesse vedere quanto è grande l’abuso del potere sulla penisola. Perché Roma piangeva come una figlia cui abbiano strappato il padre? Perché ogni notte urlava cercando nel vento? Che venisse a vedere il leggendario amore degli italiani per sé e per gli altri, ne sarebbe rimasto colpito! Frattanto gli augurai che la vergogna lo coprisse dai piedi al collo e gli rovinasse la fama, quando mi accorsi che non aveva alcuna pietà per tutti noi – quando realizzai che non sarebbe venuto al suono delle mie parole. Dov’era il Dio di Cristo, in tutto ciò? Evidentemente guarda da un’altra parte dal giorno in cui ha abbandonato il figlio in croce, quando non si voglia pensare che stia preparando i modi per cicatrizzare le lacerazioni che ci dividono. Ogni buzzurro diventa capo, in un paese ove ci sono più tiranni che leggi, più leggi che cittadini. Frattanto Firenze fa la sua bella figura, in mezzo a questo marasma; perlomeno la giustizia, se non nel cuore dei loro cittadini, alberga nelle loro menti, e trova forma di discorsi. Come sia, è difficile accettare delle responsabilità in questo assurdo paese, ma Firenze quando deve risponde. Che dunque stia lieta, e fuori dal mio discorso– è ricca, è felice, ha il dono dell’intelligenza! Andate a vedere se le mie parole non sono vere – lì le leggi non durano più di un mese e mezzo, evidente segno del fatto che non sono fatte da grandi garanti quali furono i legislatori ateniesi e spartani. Vi rendete conto che le leggi di Solone e di Licurgo sono giunte ai nostri giorni per la legittimità che gli si attribuisce presso il popolo? Che una legge è morta, se nessuno la ascolta e la cura? Come sia, in questo continuo mutare di stagione, la vita va avanti, e l’Italia se ne sta come una malata che fatica anche sul capezzale, senza sapere quale lato scegliere per alleviare il dolore.
Posted on: Tue, 24 Sep 2013 09:04:04 +0000

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