XIII – LE VEDOVE Vauvenargues dice che nei giardini pubblici vi - TopicsExpress



          

XIII – LE VEDOVE Vauvenargues dice che nei giardini pubblici vi sono viali frequentati specialmente dall’ambizione delusa, dagli inventori disgraziati, dalle glorie abortite, dai cuori infranti, da tutte quelle anime tumultuose e chiuse nelle quali mormorano ancora gli ultimi sospiri di un uragano, e che arrestano lontano dallo sguardo insolente degli allegri e degli oziosi. Questi rifugi ombrosi sono i luoghi di convegno degli esseri storpiati dalla vita. Specialmente verso quei luoghi il poeta e il filosofo amano dirigere le loro avide congetture. Ivi è per loro un pasto sicuro. Infatti, se c’è un luogo che essi disdegnano di visitare, come insinuavo poc’anzi, è soprattutto quello dove trionfa la gioia dei ricchi. Quella turbolenza nel vuoto non ha nulla che li attiri. Invece, si sentono irresistibilmente attratti verso tutto ciò che è debole, in rovina, afflitto, orfano. Un occhio esperto non si sbaglia mai. In quei lineamenti rigidi o depressi, in quegli occhi incavati e appannati, o sfavillanti degli ultimi lampi della lotta, in quelle rughe profonde e molteplici, in quelle andature così lente o a scatti, egli decifra subito le innumerevoli leggende dell’amore ingannato, dell’abnegazione misconosciuta, degli sforzi non ricompensati, della fame e del freddo umilmente, silenziosamente sopportati. Avete visto mai delle vedove, su quelle panchine solitarie? Delle vedove povere? Siano o non siano in gramaglie, è facile riconoscerle. D’altronde, nel lutto del povero c’è sempre qualche cosa che manca, un’assenza d’armonia che lo rende più affliggente. Il povero è costretto a lesinare sul proprio dolore. Il ricco porta il suo vistosamente completo. Qual è la vedova più triste e più rattristante? Quella che trascina per mano un bambino con il quale non può condividere la sua fantasticheria, o quella che è proprio sola? Non so… Mi accadde una volta di seguire per lunghe ore una triste vecchia di questa specie: rigida, diritta sotto uno scialletto consunto, ella dimostrava in tutto l’essere suo una fierezza di stoica. Era evidentemente condannata, da una solitudine assoluta, ad abitudini da vecchio scapolo, e il carattere maschile dei suoi costumi aggiungeva un’attrattiva misteriosa alla loro austerità. Non so in quale miserabile caffé né in qual modo ella fece colazione. La seguii alla biblioteca pubblica; e la spiai lungamente, mentre cercava nei giornali, con occhi alacri, arsi un tempo dalle lacrime, notizie d’un interesse possente e personale. Infine, nel pomeriggio, sotto un’incantevole cielo d’autunno, uno di quei cieli da cui scendono in folla i rimpianti e i ricordi, ella si sedette in disparte in un giardino, per udire, lontano dalla folla, uno di quei concerti che le bande musicali dei reggimenti largiscono al popolo parigino. Questo era, certo, il piccolo stravizio di quella vecchia innocente (o di quella vecchia purificata), la consolazione ben guadagnata di una di quelle pesanti giornate senza amici, senza conversazioni, senza gioia, senza confidenti, che Dio lasciava cadere su di lei – da molti anni, forse! – trecentosessantacinque volte all’anno. Un’altra ancora. Non posso mai astenermi dal lanciare uno sguardo, se non universalmente simpatizzante, almeno curioso, sulla folla di paria che si accalca intorno al recinto di un concerto pubblico. L’orchestra lancia attraverso la notte canti di festa, di vittoria o di voluttà. Le vesti strascicano e luccicano; gli sguardi s’incrociano, gli oziosi, stanchi di non aver fatto nulla, si dondolano, fingendo di assaporare indolentemente la musica. Qui, solo ricchezza e felicità; nulla che non respiri e non ispiri la spensieratezza e il piacere di lasciarsi vivere; nulla, fuorché l’aspetto di quella turba che s’appoggia laggiù alla cancellata esterna, acciuffando gratis, secondo lo spirar del vento, un brandello di musica, e guardando la scintillante fornace interna. È sempre uno spettacolo interessante il riflesso della gioia del ricco in fondo all’occhio del povero. Ma quel giorno, attraverso quel popolino vestito di camiciotti e di cotonina, scorsi una creatura la cui nobiltà contrastava violentemente con tutta la trivialità circostante. Era una donna alta, maestosa, e così nobile in tutto il suo aspetto, che non ricordo d’aver vista l’uguale nelle collezioni delle aristocratiche bellezze del passato. Un profumo di altera virtù emanava da tutta la sua persona. Il suo volto, triste e scarnito, era in perfetto accordo con le gramaglie di cui era coperta. Anche lei, come la plebe alla quale si era mischiata e che non vedeva, guardava con occhio profondo il mondo luminoso e ascoltava muovendo lievemente la testa. Singolare visione! “Certo – dissi a me stesso – quella povertà, non deve ammettere l’economia sordida; quel volto sì nobile me ne fa fede. Perché, dunque, costei rimane volontariamente in un posto dove fa una macchia tanto spiccante?” Ma passandole accanto incuriosito mi parve di indovinare il motivo. L’imponente vedova teneva per mano un bimbo, nerovestito come lei; per quanto fosse modico, il prezzo d’ingresso sarebbe bastato, forse, per acquistare una cosa necessaria a quel piccolo essere, o meglio ancora, un oggetto superfluo, un balocco. Ed ella sarà tornata a casa, a piedi, meditando e fantasticando, sola, sempre sola; poiché il bambino è turbolento, egoista, senza bontà né pazienza; e non può nemmeno, come il semplice animale, come il cane e il gatto, servire da confidente ai dolori solitari. Charles Baudelaire Da Lo spleen di Parigi, in Opere, dall’Oglio, Milano 1965. in Il Foglio Clandestino, n. 55, 2004.
Posted on: Sun, 07 Jul 2013 09:30:27 +0000

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