ascoltato Ravel eseguito da Stefano Bollani....una cosa - TopicsExpress



          

ascoltato Ravel eseguito da Stefano Bollani....una cosa magistrale, da togliere il fiato! Quando nel 1928 George Gershwin eseguì Rhapsody in Blue alla festa di compleanno tenutasi a New York in onore di Maurice Ravel, il compositore francese rimase, come disse egli stesso, “sbalordito” dalla facilità con la quale Gershwin creava complessi legami interni ritmici e dalla potenza e dalla grande velocità con le quali suonava il pianoforte. Ravel dichiarò alla rivista Musical Digest: “Trovo il jazz molto interessante: i ritmi, il modo di gestire le melodie, le melodie stesse. Ho ascoltato alcune opere di George Gershwin e le trovo intriganti”. All’inizio del viaggio, Ravel andò a vedere il nuovo e imperdibile musical di Gershwin, Funny Face, mentre Gershwin da parte sua assistette a un concerto, insieme a Edgard Varèse e Béla Bartók, che includeva il Quartetto per archi e la Sonata per violino di Ravel. I due uomini andarono anche al Savoy Ballroom nel quartiere residenziale di Harlem per ascoltare un po’ di jazz. Il Savoy era una delle regge dello swing e ospitava i sovrani del jazz. Duke Ellington, Count Basie, Ella Fitzgerald e Chick Webb vi si esibivano regolarmente; “Stompin’ At The Savoy”, disco di successo di Benny Goodman del 1934, è un chiaro riferimento a questa sala da ballo che diede al mondo il Lindy Hop. Maurice Ravel ascoltò dal vivo l’autentico jazz nero; più di quanto la maggior parte dei francesi della sua epoca potesse mai sognare. Sarebbe dunque corretto presupporre che il Concerto in Sol maggiore per Pianoforte di Ravel fosse un regalo a Gershwin, oltre che un dono di sincero rispetto per i musicisti jazz del Rinascimento di Harlem che aveva ascoltato nei quartieri residenziali di New York? In realtà, la nozione che il Concerto in Sol maggiore di Ravel fosse la ‘sua’ Rhapsody in Blue mi é sempre parsa problematica. Quando Stefano Bollani, la Gewandhaus Orchestra e Riccardo Chailly incisero la Rhapsody nel 2010, Bollani mise in campo la sua sensibilità di artista jazz per riportare il più celebre brano da concerto di Gershwin alle sue radici basate sull’improvvisazione. Come osservò Leonard Bernstein, qualsiasi delle sue “parti attaccate insieme” potrebbe in teoria essere rimossa, o ri-organizzata, “e il pezzo andrebbe coraggiosamente avanti come prima. Può essere un brano di cinque minuti o un brano di dodici minuti. E in effetti, viene sottoposto a tutte queste modifiche ogni giorno. E rimane sempre e comunque Rhapsody in Blue.” Rhapsody in Blue rappresentò il primo approccio alle composizioni estese da parte di un compositore che fino ad allora non aveva scritto niente di più ambizioso di una canzone popolare di tre minuti e che era interamente il prodotto dell’industria dello spettacolo, dove tagli e modifiche erano del tutto normali; il Concerto in Sol maggiore di Ravel fu, invece, l’ultima grande opera di un maestro veterano. Per quanto si diletti in fraseologie di stampo jazz, con il brontolio degli ottoni e le civettuole fughe di clarinetto nello stile di Ellington, il Concerto di Ravel possiede una struttura interna tipicamente robusta. Nessuna nota è sprecata, e l’integrità della composizione risulterebbe distrutta da qualsiasi avventato tentativo di tagliarne o adattarne una parte. Ravel aveva già in precedenza introdotto il jazz nella sua sfera d’azione. La sua opera L’Enfant et les sortilèges datata 1925 include un foxtrot, mentre il movimento centrale “Blues” della sua Sonata per violino potrebbe essere inserito all’interno di Porgy and Bess senza che nessuno se ne accorga. Tuttavia, il Concerto mantiene la sua unicità grazie alla profonda integrazione dell’idioma del jazz, nonché dei ricordi in bianco e nero di quelle serate ad Harlem, che Ravel opera all’interno del suo ideale erudito e istintivamente europeo di come ‘dovesse’ essere un concerto per pianoforte. Corrisponde esattamente al modello del concerto in tre movimenti veloce/lento/un poco più veloce stabilito da Haydn e Mozart; il movimento centrale di Ravel, Adagio assai, é persino modellato intorno al movimento equivalente del Quintetto per clarinetto di Mozart, nel quale il movimento lento offre un momento di calmo riposo dopo tutto quel jazz frenetico e accelerato. Ma se pur la storia ricorda la sua ultima, grande opera come un concerto “jazz”, il jazz di Ravel era, a differenza di quello di Gershwin, filtrato e illusorio. Il compositore desiderava chiaramente distanziarsi dalla sua fonte. Dopo l’iniziale schiocco di una frusta e il vivace piccolo assolo – combinazione strumentale che molti critici collegano più con l’eredità basca di Ravel che con qualsiasi cosa abbia a che fare col jazz – la melodia d’ispirazione ragtime del pianoforte e i frivoli motivi degli ottoni con effetto wah-wah si fondono infine in una sequenza di sogno ‘in retrospettiva’ annunciata da glissandi di arpe. Il finale Presto di Ravel è dominato dal chiacchierio di un assolo stridulo al clarinetto, un riferimento al clarinetto del jazz classico suonato da musicisti quali Johnny Dodds e Pee Wee Russell. Tuttavia, per dare un tono maggiormente ringhioso e ululante, Ravel scrive per il più acuto clarinetto in Mi bemolle (non per il tradizionale strumento in Si bemolle) – un gioco di destrezza avvertito a livello subliminale che nel 1924 era al di sopra delle capacità di Gershwin. Rhapsody in Blue usa il materiale del jazz per ridare ai musicisti jazz un nuovo modo di re-immaginare la loro musica; l’opera di Ravel è una meditazione calma e dignitosa sul jazz. Sebbene il Tango di Igor Stravinsky, sentito qui sia nella sua versione originale del 1940 per pianoforte solista sia nell’orchestrazione di Felix Guenther, occupi un mondo sonoro totalmente diverso rispetto a quello di Ravel, entrambe le opere rappresentano delle osservazioni sulle inclinazioni e sulle tecniche idiomatiche di uno stile musicale preso in prestito. L’introduzione di Stravinsky, estesa di proposito; il suo approccio composto alla seconda battuta ritardata storicamente tipica del tango; il suo talento nel racchiudere lo spirito del tango in una melodia che ricorda tutti i tanghi, ma nessun tango, tutto ciò mette a nudo l’archetipo del Tango. Kurt Weill, che come Stravinsky scappò dalla Germania nazista negli anni ‘30, fu motivato a utilizzare forme popolari per esprimere ideali politici. A differenza dell’approccio di Stravinsky che osservava la tradizione del Tango con un microscopio analitico, “Surabaya Johnny” (dal suo musical Happy End del 1929) e “Zuhälterballade” [“La Ballata del Magnaccia”] (da The Threepenny Opera) furono scritte da Weill per essere mascherate da canzoni popolari, e chiaramente Weill sapeva cosa stava facendo poiché divennero effettivamente brani popolari. La canzone dei Kinks “Dead End Street” (scritta da Ray Davies), o il cabaret cupo di Nico and The Velvet Underground potrebbero non essere mai esistiti senza l’esempio di Weill. Un disco intitolato Sounds of the 1930s si pone inevitabilmente tra l’Europa e l’America, tra l’arte ‘colta’ e il gergo della musica popolare. Negli anni ’30 la musica aveva le sonorità di Benny Goodman, che portava il jazz delle big band per la prima volta alla Carnegie Hall, o quelle di Ionisation di Varèse? Quelle delle Andrews Sisters o quelle di Bartók? Quelle di Moses und Aron o quelle di “Somewhere Over The Rainbow”? Quelle di Charles Ives o quelle di Erich Korngold? La suite del balletto Mille e una notte [“A Thousand and One Nights”] (1931) di Victor de Sabata, che fu portato in scena per la prima volta a La Scala di Milano, riunisce in sé tutte queste fila storiche. De Sabata fu uno dei più grandi e stimati direttori d’orchestra italiani della metà del secolo. Diresse la prima de L’Enfant et les sortileges di Ravel e non vi é dubbio che avesse imparato una o due cose dal grande compositore francese a proposito della fusione di stili. Mille e una notte è musica da direttore d’orchestra: di corporatura robusta, sfacciatamente sicura di sé, concepita con straordinaria facilità e comprensione delle dinamiche interne di un’orchestra sinfonica. Sette scene di Giuseppe Adami, librettista della Turandot di Puccini, fornirono l’ambientazione a de Sabata. L’azione passa dall’antica ed esotica Persia all’America dell’Era del Jazz – un pretesto perché de Sabata scrivesse un foxtrot, un tango e due valzer e immaginasse un paese delle meraviglie musicale dove Richard Strauss e Fred Astaire potessero coesistere. Cosa che negli anni ‘30 accadeva realmente.
Posted on: Tue, 25 Jun 2013 14:17:45 +0000

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