dal libro Sibari, archeologia, storia, metafora il mio saggio - TopicsExpress



          

dal libro Sibari, archeologia, storia, metafora il mio saggio SIBARI metafora del vivere fastoso e aperto al benessere. A) tauri i casa janca. Restavo affascinato dai racconti di mia nonna, che mi parlava del suo lavoro di raccoglitrice di spighe nella tenuta del barone Campagna, in zona “ Casa Janca” dove pascolavano i tori: quei “tauri”, venuto a conoscenza che il simbolo della moneta della gloriosa Sibari era il toro, mi tornavano nella mente, terribili e infuocati nel loro scalpitare acceso, contrasto cromatico bellissimo con il “bianco“ della casa; e mi raccontavano anche, nella fantasia, evoluzioni leggiadre di fanciulle e atleti con il toro, come avveniva nella mitica Creta, prima che il toro, con la sensualità mista a sangue versato, diventasse ritualità tragica nella corrida spagnola. Nella fantasia, quei “tauri” erano le accensioni dell’antica Sibari, potente e leggiadra, un brivido mentale che attraversa i meandri della storia per giungere a noi come exemplum di una città unica, irripetibile, come ogni miracolo, specie se piegato dall’invidia degli uomini e finanche degli dei alla più completa distruzione, per restare, indelebile, nella memoria umana, a ricordo del peccato dell’arroganza contro l’assoluto. La città, per la singolarità della sua vita, riprende nella fantasia collettiva la bellezza intatta del Paradiso perduto, acuendone il rimpianto umano per la tragica fine; come pure diventa paradigma sia della distruzione per l’arroganza umana della torre di Babele, sia dell’inabissamento di Atlandide. Con una particolarità significativa: le vicende cui quella di Sibari è paragonabile sono mitiche e frutto dell’aspirazione umana alla perfezione e all’armonia e felicità assoluta; Sibari, invece, è storia, ma così grande da diventare mito e categoria mentale: “essere un sibarita” non è tanto e solo vivere intensamente la vita in agi materiali, essere fastosi ed aperti al benessere, ma è anche la gioia dello spirito non più offuscato dall’idea della morte e della finitudine per il “peccato” originale di esistere. Un’altra riflessione: come già dice Hegel in Lezioni sulla filosofia della storia circa la guerra tra Troia e gli Achei o tra i Crociati e gli Arabi, Sibari ricalca l’opulenza, la ricchezza, la civiltà e la cultura, l’obiettivo raggiunto e quindi anche la mancanza di altre spinte di conquista; per cui, gli “affamati”, i rozzi, siano essi gli Achei o i Crociati o Crotone avranno partita vinta non certo per la superiorità dei mezzi, quanto per grinta e volontà di possesso. Un’ultima considerazione pertinente alla vicenda storica di Sibari, con richiamo non solo ad Hegel ma pure a F. Braudel: la funzione del mare mediterraneo “cuore del Vecchio mondo” e “ la storia del Mediterraneo sta in ascolto della storia universale, ma la sua musica peculiare si fa sentire a grande distanza” B) superlativo assoluto Nelle vicende storiche ed umane c’è sempre il confronto: il migliore, il più intelligente, il più ricco, il più lussuoso. Si avanza per comparazione e da essa si traggono eventuali categorie e paradigmi utili per l’indagine e per la metodologia. Sibari, come ho già fatto intuire già dalle prime battute di questo lavoro, sfugge stranamente e singolarmente ad ogni confronto: sia come città da rapportare alle altre, tanto il divario è incolmabile, (una megalopoli di circa trecentomila abitanti rispetto agli sperduti villaggi con poche centinaia di abitanti degli Enotri e della stessa Grecia) sia all’interno della sua stessa stratificazione sociale. È come se essa, usando la terminologia grammaticale, fosse un superlativo assoluto e non uno relativo e sappiamo benissimo che solo nella sfera della “divinità” non esiste il confronto, non esistono le distinzioni e i paragoni: l’assoluto non soffre di sofismi e partizioni logiche. Questa considerazione è già una spia dell’unicità della vicenda di Sibari C) Consumo vistoso e scialo Thorstein Veblen in La teoria della classe agiata parla del consumo vistoso. Tale consumo che si estrinseca in cibi, vestiti, abitazioni, mobilio, servitù, banchetti sta a dimostrare la rispettabilità della classe sociale agiata. Il consumo non riguarda certo i generi di prima necessità ma, almeno in alcuni casi, è improduttivo, non è legato all’istinto dell’efficienza, sfugge al parametro del vivere l’otium cum dignitate, per attestarsi in aperta ostentazione di lusso, in uno sciupìo di tempo e di energia, in uno scialo di vita connesso a vizi costosi: anzi, certi eccessi addirittura (bevande inebrianti e narcotici) diventano sinonimi di grandiosità del carattere e della dignità, distintivo di una classe superiore cui è permesso (anzi sono dovuti) alcuni atteggiamenti. Inoltre, questo modo di “apparire” che annienta le classi subalterne e pone uno stacco netto, tramite il consumo vistoso, a livello sociale, possiede anche una funzione culturale e persino una indicazione estetica: la classe che può permettersi questo stile di vita, si configura come un modo di vivere diverso (le buone maniere); sa darsi una sua specifica educazione, basata sugli eccessi che non sono gratuiti ma funzionali a stigmatizzare la loro qualitativa diversità; infine, esprime un gusto estetico, che sa darsi regole e modalità di comportamento e di strutturazione del tempo libero. Il consumo vistoso appartiene alla classe agiata, indipendentemente se aristocratica o dell’alta borghesia e avviene dopo il primo momento dell’accumulo, indicato da Veblen come fase della civiltà di rapina. Ora, se noi andiamo a leggere attentamente i racconti su Sibari e Siri in I sofisti a banchetto di Ateneo ritroviamo, in anticipazione delle indicazioni di Veblen sulla classe sociale agiata, proiettata verso il capitalismo, ciò che si sostiene proprio sul consumo vistoso. E mi riferisco nello specifico alla vita a Sibari: 1) comodità delle abitazioni: bagni pubblici, vasche dove si poteva stare adagiati e fare la sauna; l’invenzione dei vasi da notte; 2) modi di vestire e di curare il corpo: tunica di porpora e riccioli intrecciati con oro, mantelli fatti di lana di Mileto; i cavalieri indossano manti color zafferano; 3) organizzazione delle abitazioni: proibizione nello spazio urbano di attività rumorose, come fabbri e carpentieri; non permettere in città di tenere nemmeno un gallo per poter dormire tranquilli; 4) banchetti e rarità esotiche che caratterizzano lo scialo: tenere presso di sé nanerottoli, cagnolini maltesi, scimmie, frequenti banchetti a spese dello stato; onorare con corone d’oro quanti si distinguono per ambiziosa prodigalità per le somme elargite per i banchetti (le coregie ateniesi); 5) nel lavoro citato, Veblen sostiene che spesso i doveri dell’agio e del consumo derivati vengono demandati alla donna. A Sibari assistiamo, diversamente dalle altre città della Magna Grecia, che proprio le donne “per legge vengono invitate alle pubbliche feste”: i Sibariti, scivolando sempre più in balìa della voluttuosità, sancirono per legge di invitare le donne alle pubbliche feste….”(Filarco, Storie, venticinquesismo libro) 6) Uno degli elementi del consumo vistoso è l’istinto all’efficienza che sa coniugare sciupio e utilità della collettività, produttività e ostentazione. Noi nei citati racconti di Ateneo riscontriamo, proprio tramite il diffuso livore invidioso su Sibari, rea di “smodata dissolutezza”, la forma di attività diretta ad un fine, sapendo che l’agiatezza senza scopo è deprecabile e un articolo o evento fruito anche nella sua dispendiosità deve mostrare utilità. Ciò viene dimostrato da: a) livello tecnologico giuridico e culturale di Sibari, per le colture pregiate del suo territorio, il ricco allevamento, gli intensi scambi commerciali con l’oriente (Mileto), il suo dominio su quattro popoli e venticinque città; b) la precoce sapienza tecnologica dei Sibariti : inventori di vasche per saune (pyeloi), la vivacità artigianale a Sibari (gli artigiani dislocati in quartieri esterni per non disturbare con le loro attività rumorose); l’ingegnosità dei “condotti” attraverso cui il vino raggiunge la destinazione, una legge sul “brevetto” e le esenzioni fiscali miranti a facilitare la circolazione delle merci di lusso (allorché, parlandosi di un piatto particolare e sofisticato inventato da un cuoco, si sostiene che lo sfruttamento di questo non era consentito prima di un anno se non all’inventore stesso; o quando si parla di esentare dalle tasse i pescatori di anguille o i tintori di tessuti in porpora marina). D) La tryphé o arroganza. Ateneo ricorda che alcune dissolutezze e mollezze erano presenti presso altri popoli: a) I Cardiani (per come racconta Carone di Lampsaco negli Annali) avevano addestrato anch’essi, come i Sibariti, i cavalli a danzare al suono dell’aulo durante i banchetti. E periscono in ugual maniera nella guerra contro i Bisalti. b) Crotone stessa, dopo la distruzione di Sibari, si abbandona ai piaceri, facendo la stessa fine della vinta nemica nella guerra contro Locri (Timeo) c) I Tarantini (quarto libro delle Vite di Clearco) “forti della potenza militare e politica che avevano ottenuto, si spinsero a tali eccessi di voluttuosità da depilarsi l’intera superficie del corpo”; indossavano un tessuto trasparente bordato di porpora; furono talmente depravati voluttuosamente da esporre nudi, alla mercé di tutti, ragazzi, fanciulle vergini della città distrutta di Carbina; d) Gli Iapigi, una volta giunti in Puglia, per estrema insolenza e voluttuosità, si imbellettavano il volto, usavano toupet posticci, indossavano manti dai colori vivaci, giudicavano umiliante mettersi a lavorare e faticare, oltraggiavano la divinità sottraendo ai templi le statue degli dei e invitavano i ”Potenti“ a trasferirsi. e) Anche gli abitanti di Marsiglia sono caduti nell’effeminatezza, tengono un comportamento indecoroso, indulgendo, per il loro vivere molle e lascivo, a una femminea passività; f) Gli abitanti di Siri si volsero al culto dei piaceri non meno dei Sibariti: indossavano tuniche multicolori, stringendole alla vita con ricche fasce dette “mitre”. La singolarità di quanto riportato da Ateneo, al di là delle motivazioni da cui nascono le accuse che esamineremo avanti, consiste in due aspetti: a) Sibari è la capostipite di tutte queste smodate dissolutezze e le possiede tutte, diversamente dalle altre colonie greche citate che ne esperimentano solo alcune; b) a livello di tryphé ed arroganza verso gli dei ciò appartiene in modo totale a Sibari, parzialmente alle altre ma solo a colonie specie della Magna Grecia, non riguardando, in questa degenerazione ontologica e morale, poleis della madre patria. E) Sibari non è una città greca. In alcuni momenti, anche le poleis greche sono state disattente e orgogliose nei riguardi della divinità, pagandone le conseguenze: ma in loro era sempre presente, a livello di disposizione mentale e conseguente comportamento morale, il ne quid nimis, che è una roccaforte dell’essere sociale greco, parallelo nell’individuo all’in medio stat virtus. A Sibari c’è, nella descrizione di Ateneo, l’atteggiamento coscientemente spavaldo di competere con gli dei, di sfidarli e di non farsi intimorire dai presagi che vengono ad ammonirli prima della rovina finale: uccidono gli ambasciatori dei Crotoniati, ne gettano i cadaveri oltre le mura cittadine, lasciando che fossero divorati dalle bestie. Né danno credibilità, per pentirsi e fare sacrifici agli dei, ai segnali che questi mandano: Era che nel sogno dei magistrati procede verso il centro della piazza vomitando bile; la sorgente di sangue scaturita nel tempio della stessa dea; anzi cercano di fermarne il flusso quasi ad annullarne l’efficacia e l’ineluttabilità, sigillando con lastre di bronzo l’intero perimetro. Certo, nella malevola aneddotica contro Sibari c’è molto dell’ambiente pitagorico e sussistono alcuni topoi che poi vengono utilizzati persino per Crotone quando anche questa traligna dall’austerità per vivere mollemente ed essere così sconfitta dalla meno potente Locri. Questi topoi sono: a) la connessione tra paupertas e virtus secondo l’insegnamento proprio di Pitagora che la rinascita di virtus ed arma aveva condizionato alla pratica della frugalitas b) la salubrità vista entro un contesto che privilegia l’Oriente (la madre- patria dunque), giacché i territori salubri sono quelli rivolti verso oriente. Sibari già in questo pone problemi che vanno però al di là del citato pensiero pitagorico: Sibari, situata in un avvallamento, durante l’estate viene ad avere una straordinaria frescura all’alba e verso il tramonto e a mezzogiorno invece una calura insopportabile. C’è qui l’idea concreta che una terra fertile favorisca la tryphé degli abitanti, secondo un topos che non è più greco, ma etrusco per come sostiene Strabone; e, stando a ciò che sostiene Erodoto per i Persiani, esisterebbe parallelamente per i Sibariti un “determinismo ambientale” vista la stretta correlazione tra la natura del suolo e quella degli abitanti. Ma c’è anche un altro aspetto singolare su cui insiste Timeo: lo splendido isolamento di Sibari (isolamento che perderà Sibari) ricalca un modello illustre di popolo voluttuoso, i Feaci, anch’essi isolati e minacciati da oscuro vaticinio per come ci dice Omero nel libro VIII dell’Odissea. Da ciò si potrebbero ricavare già indicazioni interessanti: l’isolamento, inteso come autosufficienza ideologica e culturale che esclude la madre- patria è deleterio; l’orientare il proprio modus vivendi verso popoli rivali della grecità, come i Persiani, è altrettanto grave. C’è anche forse, a livello di ipotesi politica, la preoccupazione o il monito che la fine di Sibari, che vive come una megalopoli e in versione egemone sulle altre città, possa arrivare ad Atene che si appresta, poi con esiti disastrosi per la stessa Grecia, a concretizzare il suo sogno imperialistico nella guerra del Peloponneso. Così pure, affermando che la smodata dissolutezza e la sfrenata insolenza hanno, in tempi diversi, raggiunto diverse colonie greche, la maggior parte delle quali della Magna Grecia, si vuole sminuire quel momento eccezionale, tra floridi commerci, pensiero filosofico e cultura, che han visto le colonie greche dell’Italia del sud rivaleggiare se non essere superiori alla civiltà delle poleis di origine. Pertanto la Megale Ellas di cui parla Maddoli, come aumento progressivo delle esperienze economiche e tecniche dei Greci (verbo greco auxano, verbo latino augeo), viene ad essere messa in forse nella contrapposizione tra ricchezza-depravazione morale e frugalità-timore degli dei. Ma nella vicenda singolare di Sibari c’è dell’altro ed è di estrema importanza. I Sibariti, sia al loro interno, senza distinzione di classe e di sesso, sia all’esterno, hanno la concezione della vita basata “sull’ambiziosa gara di sfrenatezza tra i cittadini stessi e sul contendere da parte della città con le altre il primato del piacere”. Vivere in modo pieno la vita viene interpretato come un’offesa alla divinità, la mancata accettazione dei limiti della finitudine umana e quasi assidersi allo stesso banchetto degli dei, fatto di ambrosia e di nettare. È la distinzione netta che parte da Omero poi, dopo il breve, felice e miracoloso periodo individuato da Nietzsche nell’equilibrio tra spirito apollineo e dionisiaco, riprende con la malattia mortale, il moralismo e l’intellettualismo di Socrate e di Euripide, che avrà varianti interessanti sia in Tacito nel contrasto tra i frugali Germani vincenti e i corrotti Romani perdenti, sia in Fichte nel concetto della nazione tedesca, superiore alle altre perché non corrotta (anche se nel filosofo tedesco è altra cosa la purezza germanica). La ybris o la tryphé è volersi fare simili agli dei e non tener conto dell’aureo adagio del ne quid nimis; pertanto Sibari e i suoi abitanti sembrano non essere veri greci, ma blasfemi, quasi popolo orientale che si macchia, nel parallelo tra il popolo eletto Israele, di idolatria contro l’unico dio Yahweh. Ma forse nel cose stanno diversamente. Forse, paradossalmente, come avviene per i russi della rivoluzione di ottobre che non sono considerati veri marxisti da Gramsci e invece lo sono perché pongono al centro del loro universo l’uomo e non la burocrazia, i veri greci sono solo e unicamente i Sibariti, per come sanno vivere e per come sanno utilizzare con sana gioia le ricchezze della vita. Essi sconfiggono così il moralismo di Pitagora, (Nietzsche avrebbe dovuto tener conto di questo anticipatore della vita esangue di Socrate) sanno dare il giusto peso al godimento e allo scialo, senza rigidità mentale, tabù di ogni genere, specie rivolti alla spasmodica ricerca dell’accumulo. Che i Sibariti si sentissero diversi lo si evince anche dal fatto che si erano proposti di oscurare persino i giochi più celebri, quelli olimpici. La vera grecità era ormai solo nelle fertili pianure della terra calabra, dell’Italía solcata dal fiume Crati. Corollari a) La paideia greca basata sul kalos kai agatos, intesa in un’accezione modernissima, è incarnata proprio da Sibari: c’è la prosperità economica raggiunta e quindi si presume acutezza d’ingegno e lavoro finalizzato al guadagno; ci sono gli agi del corpo da parte dei singoli e della collettività; c’è un’organizzazione della città, del tempo libero avulso da fastidi inutili e dannosi; ci sono liberalità di costume, che non significano mollezza e incapacità di gestire il quotidiano ma quasi, in un’ottica laica, il senso bello dell’attimo: hic optime manebimus. Come pure rispetto alle gratuite accuse sulla vita lussuosa e stravagante dei Sibariti, come andare a dormire sull’imbrunire e avere veli delicatissimi nelle abitazioni: c’è la concreta esigenza, risolta con acume, di difendersi dalla malaria portata dalle zanzare presenti già allora se, come ci dice Tucidide, furono trovate persone morte per tal male. b) Il Sublime. La mia tesi è che i Sibariti, nel cosciente scialo della vita, che per altro non ammette vizi contro natura (il piacere per il piacere dei depravati), da loro interpretato come consumo vistoso, realizzano veramente, a livello culturale e come collettività, ciò che invece sarà un tentativo decadente del dandy: il rapporto tra vita e arte in una dimensione totalizzante e completa. Ciò che nel Sublime dell’Anonimo è visto, artisticamente, come altezza ed eccellenza di espressioni, attitudine alle grandi concezioni, veramente si concretizza, senza scarto ideologico, nella vita di questi nostri antenati. c) Il segno di signoria, connessa allo sciupio di tempo ed energia nell’antica Sibari non è esente dalla laboriosità dei suoi abitanti; altrimenti non si comprenderebbe tanta ricchezza, tanta potenza politica e militare e tanta gioia di vivere, che non è sfrenata ma solo visione piena e completa di utilizzare ciò che si ha per la centralità dell’uomo, come mente e come corpo. Proprio per questo, la vicenda storica di Sibari contraddice la massima di Vico, presente ne La scienza nuova, n° 241 che così recita: ”Gli uomini prima sentono il necessario, di poi badano all’utile, apresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze”. Ciò che, secondo questa “dignità” vichiana, descrive la dissoluzione del singolo e dei popoli, per Sibari resta il fulcro fulgido del suo vivere splendido, diventando un paradigma di essere dell’uomo, quasi posto in un Eden, esperimentato una sola volta nella valle del Crati e poi inesorabilmente perduto. d) A questo riguardo la citazione di E. M. Cioran da La tentazione di esistere è illuminante: il sibarita è saper concepire la felicità basata sul rifiuto di assaporare i propri mali e di pascersi di essi. E si vive così con pienezza, diventando sibariti della gioia e non certo del dolore. Eviteremo così nel nostro quotidiano quell’oscura sofferenza che ci deriva di essere noi stessi, come dice Baudelaire “piaga e coltello nello stesso tempo”. “Essere sibarita” diventa così un modus vivendi basato sulla ricchezza e placidità del sentire e godere delle cose; eccesso e sciupio non sono degenerazione, ma solo l’ampiezza serena di un concepire mentale dilatata su tutto il percorso della vita umana, senza l’ombra della precarietà, del dubbio, della mortificazione, della finitudine. Sibari è un eterno e definitivo Carpe diem. Forse anche per questo, i Padri della Chiesa non parlano di Sibari come paradigma di decadenza morale e corruzione. Sibari diventa quasi una riedizione “laica” di quell’età dell’oro, di quel paradiso perduto cui nostalgicamente e con sentimento di innocenza spesso ci si richiama.
Posted on: Wed, 06 Nov 2013 13:31:35 +0000

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