dal romanzo di Antonio Puddu "ziu Mundeddu" VII capitolo La - TopicsExpress



          

dal romanzo di Antonio Puddu "ziu Mundeddu" VII capitolo La famiglia del padrone era arrivata a Siddi il giorno avanti col carro di zio Filiberto. Con esso nei giorni precedenti si erano anche restituite le suppellettili alla casa del paese. Gli uomini mossero il gregge appena notte, quando venne la luna e un gran lucore. Zio Bartolomeo andava avanti e, ritto sulla cavalla, col fucile che sfavillava al passo della bestia, pareva padrone di quanto afferravano gli occhi. Mundeddu fra le pecore, col vincastro a mezz’aria, incalzava il primo gruppo. Ottavio seguiva il gregge tirandosi Pancione e percuotendolo: gli sferrava pedate sotto la pancia o bastonate sulla schiena. C’era d’ammazzarlo: bisognava trascinarlo, per smuoverlo: e quando vi si metteva in groppa l’animale pareva impazzire, volteggiava e inciampava e chinava la testa contorcendosi finché il ragazzo non scivolava per terra gridando parolacce. Pancione era risoluto e perfido. Aveva appioppato un calcio persino al padrone una notte che, non avendolo visto, lui s’era messo ad orinargli sulle natiche. E anche zio Bartolomeo lo percosse ma non lo uccise perché il dono di quella bestia era la mola: macinava senza un richiamo piú di uno staio al giorno! Quando arrivarono a Siddi Ottavio disse al padrone che era come se l’avesse portata sulle spalle, la bestiaccia. Fosse stata di un altro, precisò, non avrebbe fatto il lavoro per due pecore figliate di paga. Mundeddu trovò la moglie in piedi e quasi di buon umore. Gli raccontò che il giorno avanti s’era fatto il seppellimento di don Felice. Non c’era potuta andare perché le tremavano le gambe come canne ma sua madre sí; lei stessa aveva visto il corteo. Non finiva. Dalla casa del morto arrivava fino alla chiesa. Erano venuti i ricchi di tutta la zona ed avevano legato i cavalli nel mandorleto dello stradale. Pareva ci fosse la fiera. Gli raccontò che donna Filomena aveva pianto il marito tirandosi i capelli e gridando che era la rovina per la sua casa. L’avevano pianto tutti, del resto, all’infuori del maresciallo Uca, che se l’era presa per le elezioni fatte prima della guerra. Lui neppure era andato al cimitero. Disse che erano venuti tutti del vicinato a visitare lei, oltre che i parenti, compreso il cugino Cesare da Gonnostramatza con Ermelinda, la quale però troppo contenta non era perché Giampaolo doveva partire soldato. Lo scoramento di Mundeddu vicino alla moglie novamente vivace si affievolí e quando s’iniziò il lavoro della tosatura che venne ritardato di una settimana per la morte di don Felice, ebbe l’impressione di sentirsi sereno. Cominciarono presto il lavoro, nel mandorleto vicino al paese. Zio Bartolomeo l’aveva comprato da Emanuele Tuveri e poi fatto cingere da un muro a secco alto quasi un metro. Il padrone iniziò per primo a bere la vernaccia ed a tosare. Lo seguirono Mundeddu e gli altri. Ottavio acchiappava ad una ad una le pecore, le trascinava fino ai tosatori; qui le preparava: schiena a terra, ne legava le gambe con funi di giunco. Invitati come sempre i piú abili tosatori di Siddi, Mundeddu prese le forbici deciso a mostrarsi il migliore. Giampaolo e gli altri giovani, non erano svelti come lui. Zio Germano aveva molta esperienza ma anche molti anni sulle spalle, che gli s’erano come slargate e incurvate sul petto. In zio Bartolomeo non mancava la maestría né la forza ma non avrebbe tosato che poche pecore. Era il padrone e comandava lui. – Cosí molti anni – disse zio Bartolomeo e ripeterono gli altri, prima di bere la vernaccia offerta dentro la tazza di corno. Per un po’ regnò il silenzio tra gli uomini. Si erano segnati e con le grandi forbici tagliavano ora la lana ripulita dalle molte piogge cadute. Ad oriente il sole non era ancora apparso. C’era una nube piú grande fra un getto di altre minute e spaiate che parevano pezzi di carta o frantumi di foglie o brocchi, levati da una folata di vento. Le stelle dell’Orsa Maggiore scomparivano al limite del loro cammino. Si sentiva la brezza. Zio Bartolomeo e Mundeddu tosarono la prima pecora nel tempo di farsi la croce: Ottavio raccolse il vello dell’una e dell’altra. Li adagiò a distanza, sul terreno pulito. – Due – disse; poi raccattò i pezzetti sporchi rimasti e li gettò dentro un sacco. Giampaolo era vicino a Mundeddu e ai due tosatori migliori. I giovani discosto, quasi accanto alle pecore che si sparpagliavano come Ottavio si avvicinava per prenderle. Degli uomini intenti a tosare non si udiva bene la voce rivolta alla bestia legata. Però s’intuiva: ammonivano: – Ferme bisogna restare: le forbici tagliano il pelo nell’acqua! Pazienti, gli animali belavano, talvolta sollevando la testa e lasciandola cadere per terra; la pestavano, se il tosatore non era pronto a tenerla. Zio Bartolomeo tosò tre pecore e basta. Poi se ne andò sotto il mandorlo che custodiva nell’ombra le bisacce e la vernaccia rimasta. Ne bevve alcune sorsate direttamente dal fiasco e sparí. – Dove avete trovato la cinghia? – chiese Giampaolo a zio Germano. Esso infatti si teneva le reni (ma ne pareva sorretto come una tinozza dal cerchio) con una cinghia nuova di cuoio. – Tu la vorresti! – scherzò zio Germano del quale il ragazzo sentí il sorriso bonario nel viso proteso sulla pecora, tutt’intento com’era a tosare. Giampaolo rise. – Spese balorde! Quella dura cent’anni ed è per i giovani. Voi avete i minuti contati. Zio Germano si rizzò. Il sole gli colpí la faccia rossa risciacquata dal sudore che usciva da tutti i pori del viso e ruscellava sul mento e sotto il naso puntuto. – Lascia stare i minuti che Dio deve contarli e non tu, fanfarone pezzente. – Sorrise. Poi accennò al vino: – Portamene un altro bicchiere: lo preferisco alle chiacchiere! – Anch’io – approvò zio Lorenzo e Mundeddu andò svelto: ne offrí un bicchiere a ciascuno. La cinghia era stata acquistata da Pancrazio Mattana e zio Lorenzo disse che non ce ne era altra nella zona bottega ricca cosí. – Vengono persino da Villamar a comprare da lui – convenne zio Germano. La notte quando lui andava a prendersi il sigaro la gente era fitta nella sua bottega come gli zolfanelli nella scatola piena. – Però, – continuò drizzandosi e con la sua voce sicura e un po’ solenne – ricordatelo: la sua bottega andrà alla malora. – E subito si chinò riprendendo a tosare. – Ha la mano troppo aperta, dicono, ma soldi ne fa. Deve averne una stanza piena fino al tetto – disse Ottavio legando una pecora. Zio Germano lentamente riprese a raccontare di Pancrazio Mattana. Quando andava a Cagliari per prelevare il tabacco tornava ubriaco e non si reggeva: taluni cagliaritani lo seguivano e lo spogliavano dei soldi che poi lui credeva d’aver perso nel viaggio. Disse che anche dal cassetto del negozio gli sottraevan denari. – Come ha potuto arricchire? Ho sentito che non è ricco di nascita. – Chiese Mundeddu, coprendo di sterco una scalfittura che aveva fatto sul collo di una pecora. – Fortuna – disse zio Lorenzo. – Sai come fu? – spiegò zio Germano, sempre tosando con lena. – Dicono abbia trovato una caldaia di soldi nel suo orto, ma sono storie. La realtà è che faceva il carrettiere prima di Filiberto. Era solo e guadagnava. Allora non si perdeva col vino. – Pancrazio Mattana è sempre stato beone. I soldi li ha fatti il padre, non lui – lo interruppe zio Lorenzo. – Lavoravano assieme – convenne zio Germano. I giovani ridevano, sudando curvi sulle pecore. Parlavano di ragazze. Dicevano di Annunziata, la serva di cavalier Giulio, il Sindaco. Faceva all’amore con Ettore. L’aveva accettato sí, ma pareva pentita. Che cosa pretendeva? Chi credeva di essere? Sulla muriccia che chiudeva il mandorleto, salivano in uno scivolio strano di fermate e riprese, lucertole grosse e piccine. Avevano strisce esili e nere, macchiettate di un verde viscido e scuro. Giravano la testa e aprivano la bocca al sole. Ottavio raccolse un sasso e ne colpí una. Questa accorciata e rossa di sangue s’imbucò tra le pietre. La coda invece cadde, si contorse e s’interrò nella polvere. Zio Bartolomeo tornò con due fiaschi di vino. Li depose fra le bisacce degli uomini e disse: – Finite con quelle e venite a mangiare. – Mundeddu terminò per primo ed aiutò zio Lorenzo; poi tutti, a mano a mano che finirono, aiutarono gli altri. Dopo corsero a lavarsi le mani nell’acqua della tinozza che serviva per bagnare ed affilare le forbici. Tornarono al lavoro moltiplicando gli sforzi, anche perché zio Bartolomeo fra un sorso e l’altro di vernaccia dava una mano a chi terminava per ultimo. Finirono che nell’orologio di Mundeddu mezzogiorno era passato da ore. Teresa, la ragazza invitata da zio Bartolomeo per arrostire il montone, si dava da fare: rigirava la carne spalmandola del lardo che, conficcato in uno spiedo di legno, si bruciava e cadeva in fiammelle rosse frizzanti. Ai tosatori curvi sulle pecore giungeva l’odore. Ottavio tra il fumo vedeva la ragazza, dal viso rosso, stretto dal fazzoletto e il bianco delle gambe giú della lunga gonna. Si sentiva nel sangue bollore e nel cervello vampate. Diceva parolacce, acchiappando e legando le pecore. Fioralba portò un tegame di terra pieno di maccheroni fumanti, poi un secchio a metà di latte coagulato e qualche cucchiaio di legno. Zio Bartolomeo rivolto ai tosatori, ormai lavati e seduti nell’ombra, li esortò: – Ora si deve mangiare. Come prima nel lavoro, iniziarono muti. Sedevano su pietre che si erano portati ognuno per sé. Distribuiti in due deschi, ogni gruppo mangiava nello stesso recipiente di terra. Per il pranzo arrivò anche Mosè il sonatore. I giovani lo salutarono con forti grida di gioia: aveva la fisarmonica sulle spalle ma se ne scaricò nell’ombra. Giampaolo si scostò e gli offrí una robusta forchetta di legno. Anche Mundeddu gli fece posto. Mosè s’inginocchiò di fronte alla scodella di maccheroni rossi di salsa. Mundeddu ricordò allora il giorno delle sue nozze ed ebbe un sentore amaro che tentò di respingere. Si disse che tutto andava bene: doveva andar bene per forza e tracannò il primo bicchiere di vino. Poi Ottavio portò la carne e zio Bartolomeo la tagliò col suo coltello comprato a Pattada che tagliava piú di un rasoio da barba. Mangiando la carne parlarono del defunto don Felice. – Quanti anni aveva? – chiese Mundeddu. – Cinquantaquattro e tre giorni, poveretto! Lavorava come un servo. Si levava ogni mattina alle due e mezzo e sonava il corno. Avvertiva in quel modo che era l’ora di governare il bestiame – rispose zio Germano. – Perché non andava d’accordo col maresciallo Uca? – chiese ancora Mundeddu. – Colpa dei partiti – intervenne zio Bartolomeo. – Fu prima della guerra che nacque il dissidio, per le elezioni. Don Felice voleva che si votasse Cocco Ortu. Il maresciallo preferiva De Rocca. Nel paese seguirono don Felice ed il maresciallo se la prese tanto che se ne andò da Siddi per qualche anno. – Ma fu perché l’insultarono andando, a elezioni vinte, fino al portone di casa sua a ballare ed a beffarsi di lui – osservò zio Lorenzo. – Gli stava bene – disse zio Bartolomeo. Ammisero che la colpa era del maresciallo, il quale non sapeva farsi i fatti suoi. Poi dissero che anche lui era uomo: aveva assoggettato due banditi con le proprie mani e per questo venne promosso maresciallo. – Ha le forze di un mulo. – Intervenne il sonatore, staccando grandi bocconi di carne da una coscia di montone che teneva con entrambe le mani. Mangiato il latte coagulato, i giovani snidarono Mosè. Lo portarono di peso nell’ombra del mandorlo dov’erano loro. Giampaolo gli fece abbracciare la fisarmonica. – Suoni adesso – gli disse – che lo stomaco già se lo è riempito. Seduto su un sasso, principiò a sonare. I giovani si presero per mano e fecero un cerchio. Corsero ad allargarlo come nacque la musica, Fioralba e Marta e Teresa con altre ragazze del vicinato. Faceva caldo. Le ombre oscure dei mandorli si stagliavano nette, allungandosi sul terreno lucente di sole. Ottavio ballava con Teresa. Le stringeva la mano e al contatto la guardava disciogliendosi in lacrime di sudore e di desiderio: era come stordito o incantato e sollevava polvere con le scarpe, nel passo sbagliato della danza. – Balli come un somaro – lo scosse Giampaolo con una risata e una manata (mentre lui ballava con Fioralba), – ma balla, che mi piaci! Gli uomini si erano scostati per la polvere, ma li seguivano con sguardo attento per vedere chi ballava meglio. Anche gli uccelli erano scappati e solo in alto, qualcuno, scivolava leggero. La sera addolciva il clima e i mandorli splendevano di un verde vivo. Mundeddu guardò la Giara e ricordò della storia che la mamma gli aveva raccontato da bambino. – Era tutto un mucchio di grano, una volta, la Giara – gli disse. – E Nostro Signore, per provare il cuore del padrone si presentò sotto le spoglie di un povero. Aprí la bisaccia chiedendone qualche manciata. Il padrone lo fece inseguire dai cani e Gesú mutò il grano in terra avara, ricoperta da sassi. – Ora quell’ammasso di terra e di pietre chiudeva l’orizzonte. Si avvertiva nei pascoli magri, rosseggianti, segnati da esili sentieri bianchi come bianche venuzze nelle quali scorresse anziché sangue, calce. Cupo era il verde dei boschi di querce, dove crescevano cavalli piccoli al par di ciuchi e veloci come uccelli. Giú le casette nere, dei villaggi sparsi alle falde. Gli uomini avevano visto: Fioralba e Giampaolo, la coppia che meglio ballava, e bevendo, tornarono a parlare del povero don Felice. Mundeddu, al suono della danza, lentamente immalinconí. All’ora di partire col gregge andò solo, perché Ottavio continuasse a ballare. Pensò che il suo era un destino crudele. Sforzandosi, riuscí piú tardi, di quando in quando, ad illudersi. Cosí nei giorni successivi, finché si sgravò zia Eulalia. Era mezzanotte, quando Ottavio glielo disse. L’aveva seguita col pensiero, quasi fosse stata Maddalena, a dover partorire. Come seppe che l’era nato un maschio smarrí per sé ogni speranza e guardando il cielo tutt’acceso di stelle, pianse.
Posted on: Thu, 04 Jul 2013 07:48:55 +0000

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