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..un altro modo di pensare alla carne... Il direttore del programma delle Nazioni Unite sull’influenza aviaria, David Nabarro, in una conferenza nel 2006 ebbe a dire: “La più grande minaccia per la vita umana non sono Al Qaeda o gli uragani, bensì i germi presenti nel regno animale” Sapete quanti sono gli americani che ogni anno sono colpiti da una malattia trasmessa dal cibo? 76 milioni, un americano su quattro! La stragrande maggioranza di questi se la cava con poco più di uno stomaco sottosopra o una diarrea, anche se 325 000 hanno bisogno del ricovero in ospedale e, tra questi ricoverati, tra i 5000 ed i 9000 non ce la fanno. Se paragoniamo questi numeri con quelli di un secolo fa, possiamo tranquillizzarci: in quei tempi le infezioni di origine alimentare uccidevano decine di migliaia di persone ogni anno. Se dovessi parlare di rischio concreto, oggi potrei dire che è molto più probabile che io muoia in un incidente stradale che a causa di un avvelenamento da cibo. Malgrado ciò, niente attira la nostra attenzione tanto velocemente quanto le malattie trasmesse dal cibo. È indubbio che le nostre riserve alimentari siano tra le più sicure al mondo e enormemente più sicure che in passato, ma parallelamente germi che contaminano i cibi sono diventati più comuni, più patogeni (cioè più facilmente causano malattie) e più resistenti agli antibiotici che usiamo per curarci. Alcuni di questi germi cominciano a diventare emergenti, cioè fino a poco tempo fa esistevano solo in forme lievi o che non creavano problemi alla nostra salute. Tra questi, considerati pericolosi, l’Escherichia coli 0157:H7 (proprio lui!). Pensate che prima del 1979 non era presente in modo significativo nei nostri alimenti. Uno degli aspetti determinanti è che questi germi, se prima rimanevano isolati, oggi, con la diffusione e la disponibilità di alimenti a basso costo dovunque, possono muoversi tra diversi paesi e regioni con maggiore facilità: i germi che contaminano un cibo finiscono nello stomaco dei consumatori molto prima che la contaminazione stessa possa essere rilevata. La nostra presunzione ci fa credere che la battaglia contro questi germi l’avevamo già vinta. Ma sentite questi aspetti: la diffusione di confezioni di cibo, e soprattutto la diffusione di catene del freddo, fa dimenticare quanto sia facile e normale che il cibo si contamini di batteri. Questi microrganismi poi sono talmente numerosi che ci accorgiamo di essi quando è tardi. Vi basti pensare che la carne non puzza di avariato finché la concentrazione di batteri non supera i 10 milioni per centimetro quadrato. Inoltre, i batteri che causano tossinfezioni alimentari sono molto efficienti (ad esempio basta una sola gocciolina di sangue proveniente da carne contaminata a causare febbre, crampi e dolori addominali) e resistenti, tanto che la salmonella, ad esempio, sopporta i congelatori e un whisky scozzese da 50 gradi per lei diventa un aperitivo. Ma non solo: si adattano facilmente riuscendo a modificare i propri geni per difendersi dagli antibiotici. Il mercato non guarda in faccia nessuno: pensate alla carne. Per ridurre i costi, ed avere ampi margini di guadagno, ci vuole alta velocità di lavorazione, in modo da lavorare grandi volumi di prodotto. La tecnologia della macellazione ha fatto passi da gigante in questa direzione, ma questo facilita la contaminazione: il trattamento meccanico perfora sistematicamente l’intestino degli animali e le carcasse e le attrezzature degli impianti si ricoprono di feci cariche di batteri. Da qui la diffusione poi è uno scherzo. Vi faccio un esempio: la carne trita. Da piccolo spesso mia madre mi mandava dal macellaio, il quale tagliava un pezzo di muscolo e lo tritava li davanti a me. Tutto avveniva in modo locale, dall’allevamento dell’animale alla lavorazione. L’ipotesi di una infezione eventualmente rimaneva localizzata. Oggi credo che in ogni cittadina è comparso un fast food: una analisi condotta da ricercatori di una università americana, analizzando il DNA delle carni ha rilevato che l’hamburger medio da circa 100 grammi contiene carni provenienti da 55 animali diversi; alcuni hamburger contenevano tessuti di più di 1000 animali. Fino alla fine degli anni 1970, l’Escherichia coli era uno dei tanti batteri relativamente innocui che prosperavano nelle interiora delle mucche e di altri ruminanti. Qualche volta passava nel cibo destinato agli umani tramite contaminazione fecale, come ad esempio succede se le feci degli animali finiscono a toccare le verdure tramite l’acqua con le quali vengono innaffiate. Ad un certo punto questo batterio cominciò a sviluppare tratti pericolosi. Interagì con un altro germe, la Shigella, molto tossica per gli uomini, e grazie a questo accoppiamento acquisì i codici genetici per produrre le shiga-tossine. Quando le shiga-tossine giungono nel nostro intestino, bloccano la sintesi delle proteine nella parete intestinale, la parete si perfora e le tossine penetrano nel flusso sanguigno, dove cominciano ad uccidere i globuli rossi e in una percentuale di casi distruggono i reni. Ora, questa tossicità dell’Escherichia coli non avrebbe impensierito gli esseri umani, in quanto i nostri acidi dello stomaco uccidono il germe molto prima che possa raggiungere l’intestino. Ma, come sempre, l’uomo sa fare di più. Decenni di evoluzione della produzione di alimenti ha innescato un secondo adattamento dell’Escherichia coli. Il bestiame venne nutrito sempre di più a base di granoturco. Il granoturco contiene molto più zucchero di quanto non ve ne sia nell’erba o nel fieno; di conseguenza l’intestino dei bovini iniziò gradualmente a passare a una condizione più dolce e più acida (lo zucchero è acido) costringendo l’Escherichia coli per poter sopravvivere a diventare progressivamente più resistente agli acidi. Così compare un nuovo ceppo del germe, l’0157:H7, in grado di resistere allo shock acido dello stomaco umano e raggiungere intatto l’intestino, dove le shiga-tossine sfoderano tutta la loro crudeltà. Bastano 50 batteri per hamburger. Il dramma è anche che questo batterio è difficile da individuare negli animali, le mucche infette non manifestano sintomi e nessuno si accorge della sua presenza. Ma la mucca fa la cacca, e la cacca può inquinare i campi e le verdure. Nel 2006 negli Stati Uniti si è verificata una epidemia di Escherichia coli diffusa dagli spinaci surgelati. Ma l’opera dell’uomo non finisce qui, sarebbe troppo poco. Il continuo uso di antibiotici, usati sia per la crescita degli animali che per la profilassi da malattie che, vivendo in modo inumano nelle batterie di allevamento, si diffonderebbero in un batter d’occhio, con grave danno economico, ha fatto si che l’Escherichia coli abbia imparato a difendersi dagli antibiotici più comunemente diffusi. Non ho lo spazio per parlarvi di come avviene il lavaggio delle verdure a livello industriale, ma a descriverlo capireste come norme di sicurezza posso essere inefficaci per abbattere il germe. Nessun allarmismo, almeno fino a quando non viene chiarito cosa sta succedendo nel nord Europa. Ma spero di invogliare delle riflessioni più ampie, nel ricordo nostalgico delle mucche sui pascoli a brucare erba (invece che con la testa in una mangiatoia piena di granturco) e nel ricordo del chilometro zero degli alimenti, in riferimento alla quantità di strada che un cibo fa dal luogo dove viene prodotto alla nostra tavola.
Posted on: Thu, 08 Aug 2013 04:36:23 +0000

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