DOCUMENTO POLITICO COMITATO LA SPEZIA PER CIVATI -INTEGRALE - TopicsExpress



          

DOCUMENTO POLITICO COMITATO LA SPEZIA PER CIVATI -INTEGRALE “Non c’è più il futuro di una volta”. Questa frase, che campeggiava su un muro di periferia di una grande città, rappresenta una delle espressioni più emblematiche per definire lo stato di frustrazione in cui sono precipitati milioni di persone. Donne e uomini delusi, distanti anni luce da una politica percepita come inutile e costosa, non più in grado di interpretare il cambiamento e infondere speranza, che ha abdicato alle proprie prerogative e alla propria missione, e, per questo, inadeguata a fronteggiare la più drammatica crisi che sia stata vissuta dal 1929 ad oggi. Una crisi che, nata come finanziaria, ben presto si è trasformata in crisi reale e, soprattutto, sociale e che ci ha indicato, con grande chiarezza, uno a uno, tutti i limiti di un modello di sviluppo fondato su un capitalismo muscolare e che ha prodotto ineguaglianze, sperequazioni e profitti per pochi. Una crisi cui si è dato risposta con le medesime ricette neoliberiste che ne costituiscono la base: la svalutazione e lo svilimento del lavoro, l’azzeramento dei diritti, il taglio indiscriminato alla spesa pubblica, la privatizzazione come pratica giusta e moderna, la convinzione che un mercato senza regole porti più competitività e ricchezza e benessere per tutti. Accanto alle tradizionali ricette della Destra si è aggiunto il dogma dell’austerità, il cui fallimento, dopo la disastrosa gestione della crisi greca, è stato certificato dallo stesso FMI. Ma il termine ha origini ben diverse. Berlinguer, nel ’77, al teatro Eliseo lo caratterizzò partendo da una durissima critica al modello dominante, fondato su un’artificiosa espansione del consumismo individuale come fonte di sprechi, parassitismi, privilegi, dissipazione di risorse naturali. Di dissesto finanziario. Un modello insostenibile che oggi, drammaticamente, ci presenta il conto e che ha prodotto povertà, disuguaglianza, malattia, crisi ambientale. Una politica di austerità, quella declinata da Berlinguer, intesa come sobrietà, che avesse lo scopo di instaurare giustizia, efficienza, ordine e una moralità nuova. Che ristabilisse un sistema di uguaglianza e giustizia sociale. Che ci conducesse dalla dimensione dei bisogni individuali a quella dei bisogni collettivi: verso i Beni Comuni. Leggendolo alla luce della crisi che viviamo, il monito di Berlinguer risuona in tutta la sua drammatica attualità. La domanda che s’impone allora è: esiste oggi la speranza di instaurare un nuovo modello di sviluppo? Esiste la possibilità di pensare a un modello che mostri tutta l’obsolescenza di quello attuale? La risposta parrebbe essere negativa: perché la politica ha rinunciato a se stessa e alla propria missione; perché ha smarrito la via, specchiandosi nellautoreferenzialità delle proprie rendite; perché ha inteso il riformismo come un fenomeno di accettazione supina e acritica dello status quo, e non come la capacità di anticipare i cambiamenti in atto nella società moderna, influenzandoli e prevenendone le storture. Per questo, se non si ritrova l’autonomia della politica rispetto all’economia (e alla finanza, soprattutto), resteremo sotto scacco, continueremo a non scegliere, eseguiremo ordini impartiti in stanze nebulose e resteremo soggetti a decisioni dalla paternità incerta. Tutto ciò avviene in una fase in cui occorrerebbe radicalità nell’affrontare le grandi contraddizioni del mondo globale, poiché per dirla con Reichlin, “la radicalità non sta in noi ma nei problemi reali”. E radicali, perciò, devono essere le soluzioni. In un momento storico in cui occorrerebbe “gridare più forte” noi stiamo sussurrando e la nostra voce si fa sempre più flebile. Così il PD e il Centrosinistra hanno perso le ultime elezioni politiche. Abbiamo perso perché non abbiamo compreso che oggi è impossibile pensare alla società (liquida, come direbbe Baumann) secondo le categorie tradizionali. Abbiamo perso perché abbiamo inseguito per tutta la campagna elettorale il mito di un Centro, politico e sociale, che ha mostrato la propria inconsistenza, sancita dai dati di una crisi economica (-25% di produzione e -8% di PIL persi dal 2007 a oggi, dati paragonabili solo alla seconda guerra mondiale) che ha acuito enormemente le disuguaglianze sociali (in Italia il 10% dei cittadini possiede il 40% della ricchezza complessiva) e ha fatto scivolare il ceto medio sempre di più verso la povertà. A quel modello, difettoso di per sé, oggi vanno aggiunte le storture cui ha condotto la finanziarizzazione dell’economia: oggi la finanza vale svariate volte il PIL mondiale (circa 14 secondo il Rapporto Diritti Globali 2011 curato da Sergio Segio per CGIL, ARCI, Legambiente ed altre associazioni) e, da strumento funzionale all’economia, è divenuto strumento di mera speculazione ed arricchimento di poche élites a discapito di molti: fino a qualche tempo fa il tempo medio di detenzione di un titolo era di sette anni, ora è di pochi secondi. A questi dati, a questo stato delle cose, non è più possibile rispondere con una proposta di semplice “correzione”: ne occorre una che muti, in radice, il paradigma che ci ha condotto sin qui. Ma al Pd sono mancati il coraggio e la volontà di sobbarcarsi il peso di proporre progetti radicali, netti e a lungo termine. E in questo contesto generalizzato d’inadeguatezza e di scelte di comodo, la politica perde la sua partita, dimostrandosi incapace di trovare risposte efficaci ai grandi interrogativi che la modernità e la globalizzazione pongono. E allora si fa strada la cosiddetta crisi della democrazia, che è soprattutto crisi dei partiti che dovrebbero esserne garanti e custodi. Lantipolitica e il populismo si nutrono delle incertezze e dei balbettamenti della politica. Non esiste risposta a tale crisi senza ritrovare un ruolo forte dei partiti e il senso della loro missione; è imprescindibile che essi ritrovino la capacità di esercitare il ruolo a essi assegnato dalla Costituzione repubblicana e che, da enormi macchine di potere e di mera raccolta del consenso (assai spesso secondo dinamiche puramente clientelari), tornino a essere il luogo dellelaborazione politica. Ciò che vediamo ora è una realtà fatta di partiti chiusi, quasi blindati, assenti nell’interlocuzione con la società, incapaci di interpretarne esigenze e bisogni e sempre più utilizzati per assecondare le proprie personali ambizioni e non come fine del proprio impegno civico. Il PD e, segnatamente, il PD della Spezia non sono immuni rispetto a questi meccanismi e vivono le stesse identiche contraddizioni. Ma non c’è speranza nel futuro che non passi dalla necessità di ritrovare il senso e il ruolo dei partiti e non c’è futuro nel centrosinistra italiano che non passi da un rilancio della missione del PD. Una nuova fase, nella politica spezzina, si aprirà soltanto ritrovando il senso di un collettivo forte e autorevole, di un forte senso di appartenenza del proprio gruppo dirigente e di un ruolo decisivo e “decidente” dei propri circoli territoriali: la vera risorsa (inespressa, inutilizzata e talvolta calpestata) di questo partito. Realizzare il “partito clessidra”, in costante comunicazione ed interscambio tra base e vertice, è l’unico modo per uscire da questa contraddizione di fondo che frustra il senso stesso della militanza e non consente più quei meccanismi di formazione politica che sono imprescindibili anche nella politica 2.0. Pena una classe dirigente del tutto inadeguata. Vogliamo mettere da parte la stagione delle cordate di potere, dei sistemi di fedeltà al leader e di cooptazione. Vogliamo un partito che non demonizzi il dissenso, ma sappia accoglierlo: perché chi “cerca di capire le cose” non sia guardato con sospetto. Vogliamo un partito che ponga fine alla contrapposizione, creata ad arte, tra giovani e vecchi: perché a 35/40 anni solo in Italia e solo nel PD si è giovani. Vogliamo un partito che abbia il coraggio di affrontare il “momento del negativo”, che significa sciogliere i nodi, non aver paura di discutere: perché non sono la dialettica o il conflitto a essere “divisivi” ma l’unanimismo, che azzera il dibattito e spegne le energie. Vogliamo un Partito che sia “banca del tempo”, mobiliti conoscenze e sappia raccogliere attorno a sé le migliori competenze ed energie della società, mettendole a frutto. Vogliamo un partito credibile: che fa quel che dice di voler fare e che è vicino alle realtà locali, che si confronta, con lealtà e tra pari con le istituzioni e non ne resta schiacciato Vogliamo passare dal “voto utile”, formula buona per tutte le campagne elettorali, al “partito utile”, che svolge una funzione (politica e sociale) nelle comunità in cui è radicato. Vogliamo un partito in cui i circoli si aprano e non muoiano e, anzi, siano incentivati a lavorare in sinergia e reciproca solidarietà, in cui i gruppi di lavoro o i forum tematici non durino lo spazio di una giornata, in cui le discussioni non vengano lasciate e metà, in cui non domini la paura di misurarsi: anche con un voto a maggioranza. Perché è la democrazia che prevede la formazione di maggioranze e minoranze e perché è assurdo avere paura di misurarsi attorno a un contenuto. Vogliamo un partito che passi dalla logica del male minore a quella del “bene maggiore” e che dal compromesso al ribasso passi alla sintesi alta: ciò cui la politica, quella buona, dovrebbe sempre tendere. Vogliamo un partito che abbandoni la retorica del nuovo e non abbia paura di essere “diverso” rispetto a quelli che tradizionalmente lo hanno creato: nel metodo, innanzitutto. Perché c’è un tempo, quello in cui le grandi tradizioni del Novecento hanno prosperato, che non tornerà più. Un partito diverso deve saper fondere tradizione e innovazione: perché la modernità è saper custodire gelosamente la propria tradizione e i propri valori sapendo però piantare le radici nel mondo contemporaneo. Un partito con molto cuore, un po’ di gambe e un pezzettino di fegato, che vada oltre se stesso, abbandonando i porti sicuri. Un partito che valorizzi la partecipazione e che non si limiti a contare i propri iscritti ed elettori (e sono sempre un po’ meno) ma li faccia finalmente contare: perché per trovare nuovi azionisti occorre spiegargli perché dovrebbero comprare le nostre azioni. La partecipazione non si risolve in due euro, una firma e un voto espresso alle Primarie che, pure restano uno strumento indispensabile per la selezione delle cariche monocratiche, ma si esplica nel coinvolgimento di elettori, sostenitori e simpatizzanti nei processi decisionali. Un partito che non rifugga, stigmatizzi o banalizzi il confronto con le nuove forme di aggregazione che si muovono al proprio esterno (Comitati, Movimenti ecc.) ma che sappia instaurare con essi una dialettica feconda, con la disponibilità, umana ed intellettuale a rivedere le proprie posizioni. Perché non è un dramma, in politica, dire “abbiamo sbagliato”. Un partito che valorizzi il ruolo degli organismi, che li faccia funzionare e non li chiami solo a ratificare l’ennesimo “piano di salvataggio” di Acam o il regolamento per il Congresso ma che li renda protagonisti dei processi di formazione delle decisioni, valorizzandone le competenze e le esperienze. Serve un PD autonomo e autorevole rispetto alle amministrazioni locali: perché non esistono partiti degli eletti. Semmai, come si è detto, degli elettori. E perché, in un partito che si definisce Democratico, per dirla con Grillo, “ognuno vale uno”. Un partito che rottami il Cencelli, di cui si è abusato in questi anni e che è stato uno dei principali artefici della mediocrità della nostra classe dirigente, a tutti i livelli: anche locale. Un partito che passi dal “partito delle necessità” a quello delle possibilità. Un partito che non si adegui al “non ci sono alternative” che è uno slogan di destra: perché la politica è proprio la ricerca di un’alternativa ed è nella mancanza di un’alternativa che sta tutto il fallimento della politica. Un partito che ritrovi il suo frame, come ha fatto la destra col binomio “individualismo & mercato”, che tanti danni ha prodotto nell’ultimo ventennio: e il frame del PD e della Sinistra italiana non può che essere la Costituzione più bella e moderna del mondo. Che va applicata, non picconata un pezzetto per volta. Un partito che non ceda alle pulsioni decisioniste, pensando che in pochi si decide meglio, ma ritrovi la “via maestra” di una democrazia decidente: perché soffriamo una crisi di democrazia, non di decisionismo. Un partito che, anche nelle realtà locali, non abbia paura della leadership ma non ne faccia un simbolo, anteponendo la persona alla politica. Perché nel “ghe pensi mi”, nel vuoto dei contenuti, vivono le moderne forme di populismo. Anche a sinistra. Un partito che abbia a cuore la comunicazione ma che non pensi di sostituirla all’organizzazione, che è un processo in cui si devono investire risorse ed energie. E che abbandoni le liturgie ma sappia valorizzare i luoghi e le forme della politica. Un partito che sappia esaltare le buone pratiche, presentando, oltre “all’albero che cade”, (anche) “la foresta che cresce”, che è un processo più lento, che fa meno clamore, ma è infinitamente più durevole. Un partito di donne e uomini che non si domandino “cosa mi conviene?” ma “che cosa è giusto fare?” e si diano con generosità alla causa comune. Un partito, infine, dove la disciplina sia importante, sì, ma rappresenti un punto di arrivo e non di partenza. Perché un partito non sta insieme grazie alla disciplina ma alla politica e la politica non è null’altro se non una visione condivisa di bene comune. Del partito che vogliamo e per cui lotteremo, prima, durante e dopo il Congresso, in questi anni non c’è stata alcuna traccia. Se abbiamo scelto di non presentare candidature alla Segreteria Provinciale è perché non abbiamo interesse né a fare semplice opera di “testimonianza” né, tantomeno, a ricavarci una quota di consenso da mettere a disposizione per le ambizioni personali di qualcuno di noi. Ciò non toglie che a questo Congresso ci saremo, con la forza delle nostre idee, saldi nei nostri valori e con il valore aggiunto della nostra libertà.
Posted on: Sun, 27 Oct 2013 18:51:04 +0000

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