Discriminalizzazione. O criminalizzazione della - TopicsExpress



          

Discriminalizzazione. O criminalizzazione della discriminazione. Per millenni, la discriminazione tra individui, per le più disparate ragioni, è stata parte integrante della società e della cultura. Era avvertita come un fatto normale, del tutto naturale, al punto da apparire giusta ed assolutamente scontata. Intorno all’80 dopo Cristo, Marziale (Liber de spectaculis, II, 51) irrideva pubblicamente tale Illo per la sua omosessualità: Unus saepe tibi tota denarius arca cum sit et hic culo tritior, Hylle, tuo non temen huno pistor, non auferet hunc tibi copo, sed si quis nimio pene superbus erit. Infelix venter spectat convivia culi Et semper miser hic esurit, ille vorat. Che, poi, nella lingua dei nostri giorni, sarebbe come dire: Illo, spesso nel tuo forziere possiedi solo un soldo consunto più del tuo sedere. Eppure non è l’oste, o il panettiere che te lo porta via, l’ottiene chi in verità ha il più robusto pene. E il ventre poveretto e triste ai banchetti del tuo culo assiste: uno infelice muor di fame doppia, l’altro d’indigestione invece scoppia. I romani ridevano di gusto per questa messa alla berlina del loro concittadino e nessuno – Illo escluso, ovviamente – ci trovava qualcosa da ridire, essendo tutti convinti che l’omosessualità fosse un’anormalità e che ogni forma di diversità fosse da condannare. Un millennio e mezzo dopo, la situazione non era affatto mutata; a Venezia, il Consiglio dei Pregadi istituisce il Ghetto Ebraico (da allora, tutte le zone in cui, nelle città europee, verranno confinati gli ebrei si chiameranno “ghetto”); all’entrata del Gheto Novo (che, in realtà, è il più antico),subito a sinistra, sulla parete di un edificio, una lastra di marmo elenca le pene riservate agli ebrei che, dichiaratisi convertiti al cristianesimo, fossero colti a celebrare i riti ebraici ed invita la popolazione alla delazione segreta di tali comportamenti. Per i veneziani – ed, in seguito, in tutta Europa – discriminare gli ebrei era un fatto normale, non conformandosi questi all’identità culturale dominante (cristiana e cattolica) e risultando, dunque, dei diversi, dei corpi estranei all’interno della comunità. La discriminazione, dunque, non era affatto avvertita come un male. Passano altri cinquecento anni (1959) e, nella civilissima Svizzera, quando, come richiesto dalla Costituzione, viene interpellato l’elettorato (esclusivamente maschile), ben due terzi di esso rifiuta la proposta parlamentare di riconoscimento del diritto di voto alle donne (riconoscimento che giungerà soltanto nel 1971). Per la società svizzera, da sempre governata dai maschi, la discriminazione politica della donna era un elemento consolidato nella cultura e nel pensiero delle persone, essendo appunto la donna una creatura diversa rispetto a quelle che componevano la classe dominante (i maschi). E fin qui possiamo considerare pacifico che, fino ad oltre la metà del novecento, più o meno diffusamente (ma abbastanza diffusamente, aggiungerei), la discriminazione, lungi dall’apparire un crimine, rappresentava un modo di pensare e di agire del tutto normale, non soltanto ammesso bensì anche giustificato: giustificato dalla diversità dei discriminati. Ma dove voglio arrivare? Ad oggi, ovviamente. Nell’ultimo mezzo secolo la nostra società occidentale ha subito un’accelerazione in tutto: nella tecnologia, nell’economia, nel modo di pensare e nel costume. Abbiamo così iniziato a pensare che la discriminazione (verso le persone di razza diversa dalla nostra, verso chi professa differenti religioni, verso le donne, verso gli omosessuali e via discorrendo) fosse qualcosa di sbagliato e tanto, in sé, non può che essere considerato un’acquisizione della civiltà. Dico “abbiamo” ma dovrei dire “molti di noi hanno”: i più acculturati, i più sensibili, probabilmente anche i più intelligenti. Già questo pensiero, in realtà, è discriminante, verso gli ignoranti, gli insensibili e gli stupidi; e, però, negare questa differenza equivarrebbe a negare la realtà. Qui sta il punto: il pensiero politicamente corretto, spesso, nega la realtà (o, comunque, prescinde da essa). Finché si è trattato di affermare i principi, nessun problema; finché si è intervenuti legislativamente per impedire la discriminazione sul piano dei diritti individuali, le cose sono risultate abbastanza semplici. Ma, di recente, abbiamo assistito ad un “salto di qualità” che, oltre a dimostrare una volta di più la miopia dei nostri governanti, evidenzia l’ottusità del pensiero politicamente corretto. Si è deciso di sanzionare le manifestazioni di pensiero che tradiscano – a detta di chi le interpreta, ovviamente – un sentimento discriminatorio. Mi riferisco – ma solo a titolo esemplificativo, ben potendomi riferire anche ad altri ambiti – alla questione dei “cori da stadio” (sui cui termini evito di dilungarmi, ritenendo che tutti li abbiate ben presenti – del resto, di questi giorni pare che non possa parlarsi d’altro). Il nostro presuntuoso legislatore (con la elle minuscola: quella maiuscola la riservo a gente come Calamandrei, di cui si è perso lo stampo) ritiene di poter reprimere un modo di pensare, sbagliato – secondo la nostra attuale sensibilità – ma radicato, come abbiamo visto più sopra, da alcuni millenni, attraverso il rudimentale strumento della punizione. Ma non si cambia il modo di pensare dei cittadini attraverso le multe e le sanzioni: al massimo, con esse si può ottenere che quel pensiero non venga manifestato (non in modo eclatante, quanto meno). Quel pensiero, però, rimane ed informa il comportamento di coloro che lo concepiscono. A che cosa mira, dunque, il legislatore? A nascondere la polvere sotto il tappeto? Come se il medico curasse l’ammalato di peste bubbonica somministrandogli un farmaco contro i brufoli: i bubboni, forse, spariranno, ma la peste? Bisognerebbe, piuttosto, domandarsi quale sia l’origine della discriminazione, senza sottovalutare che siamo al cospetto di una tendenza che alligna nel cuore dell’uomo da millenni e che, questo, qualche cosa vorrà pur dire. Dovremmo, cioè, fare i conti con la nostra natura, con le nostre pulsioni più basali, con gli abissi dei nostri pensieri ancestrali. Dovremmo avere il coraggio di smantellare l’idea sovrastrutturale che ci siamo fatti di noi stessi nei secoli, per riscoprire una verità ineliminabile (per quanti sforzi noi si abbia compiuto al fine di cancellarla o, almeno, di dimenticarcene), ossia che siamo animali. E partire da lì per comprendere le ragioni iniziali del problema ed immaginare soluzioni e correttivi che non prescindano dalla nostra reale, incancellabile natura. Ho l’impressione che i fautori del politicamente corretto siano convinti di poter far diventare vegetariano un coccodrillo. Ed ho l’impressione che si sbaglino.
Posted on: Sun, 29 Sep 2013 08:31:36 +0000

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