Molti anni fa. Fernanda Pivano è nata a Genova nel 1917 e nel - TopicsExpress



          

Molti anni fa. Fernanda Pivano è nata a Genova nel 1917 e nel 1940 si è diplomata in Pianoforte presso il Conservatorio di Torino. Nel 1941, sotto la guida di Cesare Pavese, si è laureata con una tesi su “Moby Dick” di Herman Melville – che aveva chiesto a Dio di mostrargli il suo volto. La tesi fu in seguito premiata dal Centro di Studi Americani di Roma. Nel 1943 conseguì una seconda laurea in Filosofia e sollecitata proprio da Pavese iniziò l’attività letteraria, con la traduzione de “L’Antologia Di Spoon River” di Edgar Lee Masters. In seguito tradusse altri romanzieri anglosassoni: Charles Dickens, Edgar Allan Poe, Francis Scott Fistgerald, Ernest Hemingway, William Faulkner, Lewis Carroll e Sherwood Anderson. Quasi sempre le traduzioni erano corredate da lunghi saggi introduttivi; questi saggi durante gli anni divennero una pietra di paragone per appassionati e ricercatori, rappresentando la produzione più nota della studiosa. Seguendo una linea critica per nulla incline alla tradizione e non trascurando nessuna sfumatura, la Pivano offrì l’opportunità di conoscere a fondo la singola vicenda degli autori. Soprattutto, grazie ad una visione del tutto nuova del lavoro e continuando a raccontare il passato e il presente dal punto di vista dell’arte, descrisse la dimensione all’interno della quale quegli artisti avevano mosso i loro passi. Nel tempo i suoi articoli sono apparsi su numerose testate: da “Il Giorno” a “Ciao 2001”, da “Il Mondo” a “Muzak”, da “La Gazzetta del Popolo” a “Pianeta Fresco”, da “Domus” a “Ubu” fino al “Corriere della Sera”. Ma il contributo della Pivano è andato oltre; suggerendo, in un inedito ruolo di talent scout, la pubblicazione di alcuni dei più significativi scrittori contemporanei nordamericani. Da quelli già menzionati degli anni Venti e degli anni Trenta, a quelli della protesta nera come Richard Wright; dai protagonisti del dissenso non violento degli anni Sessanta come Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso e William Burroughs; agli autori Post-minimalisti degli anni Ottanta come David Leavitt, Jay McInerney e Bret Easton Ellis; fino alle ultime proposte degli anni Novanta come quelle di David Foster Wallace e Mark Leyner. E’ stato questo approccio non ortodosso, unito ad una sincera partecipazione di sorpresa e di speranza, a fare di Fernanda Pivano, nonostante le riserve del mondo universitario, una figura di rilievo della scena culturale italiana. Ma probabilmente per lei il risultato più caro è stato l’amore tributatole dai giovani lettori di ogni generazione; che hanno scoperto nelle sue pagine la densità della riflessione intellettuale, unita a un delicato senso della misura e all’incanto della poesia. Si dice che nei primi anni Settanta, nel sacco a pelo di tanti ragazzi – che dall’Italia andavano a cercare la libertà in terre lontane, in autobus fino a Istanbul e poi con mezzi di fortuna nel cuore dell’India – era facile trovarvi una copia di “Beat Hippie Yippie”; una fondamentale raccolta di interventi che l’allieva prediletta di Cesare Pavese aveva pubblicato nel 1972 per conto della Arcana, la casa editrice creata poco tempo prima da Raimondo Biffi. Cogliendo un’atmosfera e mutandola in arte, Nanda aveva trovato la sua felicità. - Suppongo sei rimasta male perché da Mondadori non ti hanno coinvolta per il Meridiano dedicato a Kerouac. Inoltre hanno eliminato molte delle tue prefazioni dalle ristampe dei libri. - La Mondadori ha fatto sempre delle gaffes con me. La prima volta che Kerouac venne a Milano, per esempio, non mi chiamarono neppure. E adesso di nuovo. Hanno fatto il Meridiano di Kerouac e non me l’hanno neanche detto. L’ho saputo per caso. - Hai suscitato spesso reazioni contrastanti. - Io sono buddista, e non posso immaginare che qualcuno abbia dei risentimenti così forti per una persona insignificante come me. E allora penso che sia proprio un problema di differenza di metodo. Io lavoro come un etnologo sul campo, andando a cercare gli scrittori, parlando con loro, frequentandoli, per scoprire come sono nella loro realtà, fuori dalla immagine che danno ai media. Invece i Professori lavorano in biblioteca, e certe volte non li hanno neanche visti in faccia questi scrittori di cui parlano. E loro non parlano degli scrittori, parlano di quello che gli altri Professori dicono degli scrittori. Hai capito? - Parlavi di questa questione, e cioé della diffidenza dell’Università verso il tuo metodo, già vent’anni fa – quando ci siamo conosciuti. E’ una vita che ci fai i conti. - Una vita, sì. E’ cominciato da quando io mi sono occupata di Hemingway, che loro consideravano un perditempo, un poco di buono. E così siamo andati avanti tutto il tempo. Poi loro sono convinti, ma proprio convinti, che la letteratura americana è una derivazione da quella inglese. Invece no, non è vero. Perché non sanno che c’è stato uno come Malcolm Cowley, che ha proprio inventato la letteratura americana, dicendo che è cominciata con Mark Twain ed è andata avanti attraverso Hemingway fino ad adesso. Ma per loro non è mai nato questo problema. - Immagino la tua popolarità abbia accentuato la distanza con l’Università. - Tutte le loro scelte sono diverse dalle mie. E adesso, improvvisamente, quarant’anni dopo tirano fuori Kerouac. Che ho pubblicato con molte difficoltà. Ho fatto una specie di blitz con Arnoldo Mondadori in persona. Altrimenti quel libro lì non usciva, o forse usciva adesso! Allora non sarebbe uscito. Se hai pazienza di farlo una volta ancora: vorrei raccontassi come ti sei avvicinata alla letteratura americana. Un interesse che ha portato ad una conversione della tua vita. Sì, va bene. Allora, diciamo che se io mi rivolgo a dei ragazzi giovani, loro non sanno forse che in Italia c’è stata una cosa molto strana che si chiamava fascismo. Adesso è venuto di moda per alcuni dire che la dittatura fascista era una dittatura da operetta, però non era mica tanto da operetta! Per esempio c’era un musicista come Massimo Mila, che è stato nove anni con le catene ai piedi, in una prigione. Senza potere uscire. Ci sono state le persecuzioni; tanti altri hanno sofferto, sono stati picchiati… - Per tacere delle ripercussioni patite dal tuo amico Primo Levi; che lo hanno portato molti anni dopo a cercare la morte, un sabato mattina di aprile del 1987... - Per esempio. Bocciato a scuola, insieme a me, in italiano con un tre. Per cui abbiamo dovuto dare tutte le materie a Settembre quando abbiamo fatto la maturità! - Papà tuo andò a parlare con i Professori. - Mio padre aveva chiesto l’esame pubblico, a Settembre. E infatti a Settembre vennero tre Professori per vedere cos’era. E lì è stata una cosa veramente catastrofica, perché io ero abbastanza brava in italiano, però quando si toccava la fisica o quelle robe lì era una calamità. Loro mi hanno chiesto: «Cos’è, Signorina, la legge di gravità? Ci parli della legge di gravità». Ed io: «E’ quella cosa che se lasci cascare una mela, casca per terra». Questi mi hanno guardato sbattendo gli occhi, me lo ricordo come fosse ieri, e mi hanno detto: «Forse Signorina è meglio che parliamo d’altro. E’ meglio che non si occupi di studi scientifici» (ride). Sai, avevo tutti dieci, come Primo Levi, e questi ci bocciano in italiano! Roba da pazzi! Succedevano anche queste cose. Ritornando al nostro tema: allora questa era la situazione in cui si viveva. una situazione abbastanza bizzarra. Il linguaggio di allora era altrettanto bizzarro, perché io per esempio non ero una bambina, ero una matrice della patria! Allora tutto il mondo si incentrava attorno alla possibilità di fare una guerra. Ci sono delle somiglianze, sai, con quello che succede adesso. Allora, a queste guerre, andavano quelli che i giornali chiamavano i gloriosi legionari italiani; ed erano quei poveri ragazzi che andavano lì senza neanche le scarpe, con le scarpe di cartone. Per cui alla prima pioggia restavano senza scarpe. Questi erano i nostri gloriosi legionari (ride)! Io mi sono proprio schifata di questa cosa, non riuscivo a vivere in quel modo, e contemporaneamente a questo mi erano arrivati i primi libri di Hemingway. Allora sono impazzita a leggere Hemingway! Ma prima ancora di Hemingawy, Cesare Pavese mi aveva dato da leggere l’”Antologia Di Spoon River”. - Eh già… - “L’Antologia Di Spoon River”, già. Allora: che cose’era “L’Antologia Di Spoon River”? Che, devo dire, Einaudi pubblica ancora adesso, e che i ragazzi leggono ancora adesso. I ragazzi me la portano ancora adesso da firmare, guardandomi con gli occhioni così (ride), e domandandosi: «Ma chi è questa che ha tradotto L’Antologia Di Spoon River?» - Altri l’hanno scoperta grazie al disco che realizzaste con Fabrizio De André, nel 1971. - Ah beh, quella è una cosa favolosa. E’ la grande premiazione: il Nobel che ho avuto io. Avere la simpatia di De André. Sai, con De André eravamo due anarchici pacifisti di estrazione alto borghese. Era molto facile il discorso fra noi. E lui questa “Antologia Di Spoon River” l’ha trasformata, l’ha fatta diventare molto più bella. Con una carica di umanità, com’era lui - che faceva diventare d’oro tutto quello che toccava. Qualsiasi cosa toccasse la faceva diventare carica di umanità, di dolcezza. - Gli volevi bene. - Gli voglio molto bene. Vado sempre con Dori alle sue presentazioni. Ma non sono mai stata la sua amante! - Beh, tu sei stata l’amante di Kerouac. - Eh già! (ride) Lo dicono loro che sono stata l’amante di Kerouac. Pensa che cretina, che esperienze mi potevo fare con questi geni. E invece niente! - Hai perso un’occasione. - Madonna, ma quante ne ho perse! Non sai quante (ride)! Beh, insomma, fatto sta che in questa “Antologia Di Spoon River” i ragazzi vedevano la democrazia, cioè la libertà, l’anticonformismo, l’antimilitarismo, il pacifismo, e tutte queste che erano (che sono ancora adesso e che saranno per sempre) le ansietà dei giovani, i desideri dei giovani: i sogni dei giovani. Chiamiamoli pure i sogni. E allora io mi sono messa in questo mondo, e volevo andare a vedere com’era l’America. E’ venuto Hemingway nel 1948, a rivedere l’Italia; lui aveva saputo che per aver tradotto “Addio Alle Armi” ero stata arrestata dai tedeschi, e probabilmente aveva saputo anche che ero stata arrestata tre volte dai fascisti. Per cui mi aveva mandata a chiamare con una cartolina, e nella cartolina c’era scritto di andarlo a trovare. Io ho pensato che fosse uno scherzo e ho buttato via la cartolina! Che stronza (ride)! Non si diceva ancora che stronza. Si diceva: ma che imbecille! - Oppure che sciocchina. - Che sciocchina (ride), sì. Beh, ad ogni modo dopo un po’ è arrivata una seconda cartolina che mi dice: «Se non vieni tu a trovarmi, vengo io a trovare te». Allora prendo il primo treno che partiva, senza capire dove andavo. Ero completamente impazzita dall’idea di incontrare questo idolo per me che era Hemingway. Sono arrivata a Cortina, lui era in un albergo che avevano aperto apposta per lui che era Il Concordia, che non esiste più, e si alzato in piedi, ha attraversato il salone del ristorante per venirmi incontro. Lui ha capito subito…lui capiva sempre tutto, sai, era incredibile! Mi è venuto incontro con le braccia aperte e io a momenti svenivo! Lui mi ha abbracciata facendomi scricchiolare le ossa con quello che loro chiamavano uno hug. Io ero lì, veramente imbambolata. E la prima parola che mi ha detto, è stata: «Parlami dei nazisti». Così ho capito che aveva saputo che mi avevano arrestata. E da allora lui mi ha sempre chiamato la sua Giovanna D’Arco! Era matto da legare (ride). Così ho cominciato e poi sono andata avanti a fare questo lavoro. - Non stavi andando a trovare proprio Hemingway, quando per la prima volta sentisti alla radio una canzone di De André? - La cosa andò così. Una volta Hemingway era all’Hotel Savoy, a Nervi, e stava aspettando che partisse la nave. Lui viaggiava per nave in quel periodo. Ma le navi non si sa mai quando partono, dipende da tante cose: le situazioni climatiche, il mare, il tempo, il vento. E lui stava aspettando che lo avvertissero di partire. E io ero andata a trovarlo, naturalmente. Perché lui, appena arrivava in un posto, mi mandava il telegramma di andarlo a trovare. Questo è stato uno dei grandi orgogli, dei grandi privilegi della mia vita. Allora mentre andavo a questo albergo di Nervi, che aveva un sentiero lungo il mare per arrivarci, sentì questo che cantava “La Canzone Di Piero”. Io stavo facendo allora “L’Antologia Della Pace” per Feltrinelli, e questa canzone era la canzone in assoluto più antiamericanista che esistesse, con questi versi fantastici che dicono: «E mentre era lì vide un ragazzo della stessa sua età, con la stessa uniforme, ma di un altro colore». Hai capito? E io naturalmente sono impazzita! Ho scritto a De André, ma nessuna risposta perché poi lui mi ha detto che non l’aveva mai ricevuta quella lettera! Lui era ancora con un piccolo editore di dischi. Era la prima cosa che faceva. E da quel momento sono stata una grande seguace di De André. - Lo hai sempre ammirato, fino a dichiarare che «Dylan è il De André americano». - Il Premio Librex l’hanno dato sia a Dylan che a Fabrizio. Che ho trovato una cosa fantastica. Sono molto felice di questa cosa. E allora quando premiavo De André, io dicevo sempre davanti al pubblico: «Tutti dicono che tu sei il Dylan italiano, ma invece dovrebbero dire che Dylan è il Fabrizio americano!». La prima volta che l’ho detta gli sono venuti i lacrimoni. E poi invece rideva, lo dicevamo per gioco. Sai quante volte l’ho premiato? Ogni momento dovevo andare a dargli una targa! Mai una volta che vedesse una busta di soldi! - Anche a te hanno dato più riconoscimenti che soldi. - Soldi a me? Mai! Neanche una volta. Mai mai mai (ride)! Per l’amor di Dio: sono tanto onorata che me gli abbiano dati, i riconoscimenti. Sono felice, orgogliosa, però…mai una lira (ride). - Un libro che esprime bene il tuo lavoro è l’antologia “Viaggio americano”. C’è anche un pezzo su Kurt Cobain. Niente male per una signora vittoriana! - Kurt Cobain fu un anticipatore, perfino rispetto al movimento no-global. I grunge non erano solo ragazzi che si mettevano i vestiti strani; e Cobain era il loro ispiratore. - Nello stesso libro c’è un articolo su Alice B. Toklas, la compagna di Gertrude Stein. E’ del 1991. E’ molto bello. - Questa è una storia che ho visto coi miei occhi. Non è una notizia dei media (ride)! Lei ha voluto la sua lapide dietro a quella di Gertrude, e quand’era in casa stava sempre su una sediolina bassa vicino a lei. E quando uscivano stava sempre un passo dietro di lei; ha sempre avuto queste specie di venerazione per Gertrude. Che poi si estendeva anche nel privato; perché mi ricordo che una volta lei mi ha fatto vedere la camera dove dormiva, e nella parte dove dormiva Gertrude c’era un indumento notturno, con le ciabattine vicino al letto. Io lo guardata e lei mi ha detto: «Lo tengo sempre pronto perché potrebbe arrivare magari stanca e così non deve perdere tempo a cercarli». Lei viveva in questo clima. - Tra gli artisti che hai avvicinato, chi ti ha colpito per l’umanità? - Uno dei più generosi è stato Bukowski, che era di una gentilezza umana infinita. - Fu quando lui disse, rivolgendosi a quelli che temevano per la tua incolumità: «Ma cosa volevate che facessi? Che la stuprassi?» - (ride) Era veramente di una dolcezza…Bukowski beveva molto; insomma era sempre ubriaco, diciamolo pure. Ma non tutto il giorno, era ubriaco la sera. - Con metodo. - (ride) Con metodo, sì. Perché di giorno andava alle corse dei cavalli, lì non si ubriacava. Noi amici potevamo andare da lui soltanto la sera verso le sette, perché a quell’ora arrivava dalle corse dei cavalli. Allora un giorno è arrivato dalle corse dei cavalli felice. Non l’avevo mai visto così contento, allegro. Gli dico: «Cos’è successo Hank?» – noi lo chiamavamo Hank, perché era la forma affettuosa, diminutiva del suo vero nome Henry. «Ah…finalmente ho vinto alle corse! Adesso devo fare questo e quest’altro…». Ha cominciato a dire una serie di cose che avrebbe fatto con questa vincita. Allora dico: «Ma quanto hai vinto?». E lui: «Venticinque Dollari!». «Come venticinque dollari! Cosa vuoi fare con venticinque dollari?». E lui ancora: «No, vedrai, io farò tante cose». E intanto c’era la dolcissima moglie che aveva, la Linda, che mi dice: «Sai, questa mattina lui ha ricevuto l’assegno di duemila dollari, e non l’ha neanche guardato!». Capisci? E lui pensava che con la vincita di venticinque dollari non avrebbe più avuto problemi economici per tutta la vita! Lui era così. Era carino…sai che lui a tavola beveva acqua minerale? Acqua minerale al sapore di ciliegia. Una cosa tipica americana. Queste cose i Professori non le sanno. - Forse è stato questo tipo di approccio che ti invidiavano. - Ecco, la passione che ho avuto per l’America è un’altra storia. E’ nata proprio quando noi avevamo…questa fanfara fascista. Non diciamo la parola fascista perché non è di moda, insomma questa fanfara del linguaggio di allora. E invece dall’America mi arrivavano questi messaggi a misura umana, com’era “L’Antologia Di Spoon River”, com’erano i libri di Hemingway. Lui ha inventato un modo di scrivere…sai? Ha inventato l’introduzione dell’uomo nel libro, dell’uomo di tutti i giorni. E questa cosa mi aveva talmente entusiasmata…che esistesse qualcosa che non era la retorica fascista, per non parlare dell’influenza terribile della letteratura francese o della cultura spagnola. Insomma, un secolo e mezzo siamo stati sotto la dominazione spagnola, un secolo sotto i francesi, per fortuna solo venticinque anni sotto i fascisti (ride)! Eravamo in quelle condizioni. E invece lì c’erano questi che scrivevano come parlavano; le passioni, gli amori, erano quelli della vita quotidiana. E io mi sono innamorata. Da quel momento il mio problema era di seguire, abbandonata alle mie emozioni, queste scoperte che facevo ogni giorno via via che trovavo questi personaggi, che in realtà erano dei geni che stavano rappresentando un nuovo mondo. Era davvero un mondo nuovo. - Dopo Hemingway credo per te le esperienze più belle siano state quelle con Jack Kerouac e i poeti della Beat Generation. - Kerouac…credo di non conoscerlo bene. Vedi che alla Mondadori non mi hanno chiamata (ride)! Dovrò decidermi a leggerlo questo Kerouac. - Pare sia bravo. - E’ un giovane che si farà, sembra. Occupandosene la Mondadori: deve essere uno scrittore straordinario (ride). - Una volta si diceva l’avesse portato in Italia una certa Pivano. Ma è roba di tanto tempo fa, ormai non ha più importanza. - Chissà cosa avrebbe detto: quella lì era una divulgatrice…com’è che mi chiamavano…una divulgatrice dilettante. Non ero all’altezza, capisci. Resta il fatto che Kerouac era un uomo dolcissimo, e disperato. Ma questo comune denominatore della disperazione valeva per quasi tutti gli americani di cui mi sono occupata. Non ho mai trovato uno di questi che scrivevano queste cose straordinarie, che fosse giocondo. Erano tutti disperati. Allora una delle mie grandi ansie era quella di scoprire, per ciascuno di loro, che cos’era che li faceva diventare disperati. Perché per me era una roulette russa, insomma; scoprire la loro realtà, sotto queste maschere. La passione mi guidava: loro poi, vedendomi mossa dalla passione, si aprivano e si lasciavano andare a parlare della loro passione. E così io so dei segreti che non dirò mai a nessuno. E questa è stata la ragione per cui mi sono appassionata a queste persone. Se tu hai notato quasi tutti gli autori di cui mi sono occupata erano autori pacifisti, che facevano una grande campagna contro la guerra. E’ stato Kerouac, per esempio, che per la prima volta ha dato l’immagine che la guerra è come un boomerang: se tu spari gli altri spareranno. E ti torna indietro il tuo sparo. Lui ha fatto una metafora con lo sputo, in un momento in cui tutti dicevano delle cose terribili. Sai, come questa scrittrice famosa italiana che ha detto: «Io questi qua li prenderei a sputi e a calci». E lui, che aveva cominciato a parlare di sputi, diceva: «Se uno mi sputa: lo sputo gli tornerà indietro come un boomerang». L’immagine del boomerang, per la violenza della guerra, è stupenda. - Ricorda quello che diceva Ghandi: «Se fai occhio per occhio, tutto il mondo diventa cieco». - Eh già, eh già. - Dylan? - Dylan è un’altra cosa. Quando si è preso il Premio Librex, non è andato a prenderlo, naturalmente. Perché questi qui, come Kerouac o come Dylan che sono stati sputtanati quand’erano giovani, non ne volevano sapere di loro. Adesso non vogliono più andare a prestarsi a fare dei fantocci, a fare il birillo insomma. Vedi cosa ha fatto con l’Oscar? Quando glielo hanno dato, lui non è andato a prenderlo. Allora lo hanno costretto a riceverlo, perché glielo hanno mandato. Ma quando lui lo ha ricevuto, l’ha preso e l’ha legato a un violoncello a gambe in su! Ha sempre fatto di queste cose molto trasgressive. Naturalmente più le fa, più io mi innamoro: quello si capisce. E come quando i miei amici fumavano la marijuana: avevano alzato questo polverone per evitare che Jospeh McCarthy potesse impadronirsi dell’America, col suo neofascismo. Infatti una volta la rivista “Life”, che rappresentava proprio l’establishment americano, aveva pubblicato una copertina con una scritta dove diceva: «A liberarci dal neofascismo sono stati questi ragazzi coi sandali e i capelli lunghi». - Hai pensato come i tuoi amici beat avrebbero reagito: di fronte l’attuale e generale aumento della violenza? - Eh sì, ci ho pensato tanto. Mah…io sono sicura che se c’erano loro non succedeva. - E’ bello quello che dici. - Sono sempre stati i poeti che hanno evitato le guerre. Se tu sapessi che cosa non hanno fatto per evitare la guerra in Vietnam. Tu non hai idea; non ci sono riusciti, però loro hanno fatto delle azioni veramente pazzesche per riuscirci. E probabilmente avrebbero fatto lo stesso adesso. - Di tutte queste persone chi ti manca di più? - Beh, naturalmente Hemingway. Hemingaway ha proprio…ha cercato di insegnarmi a scrivere. Poi non c’è riuscito, perché sono troppo cretina (ride) ma lui ci ha provato in tutti i modi. - Almeno ci ha provato… Almeno ci ha provato, sì (ride). E poi Ginsberg, perché con Ginsberg abbiamo lavorato vent’anni insieme; ma proprio lavorato davvero, al tavolino. Una volta in un’intervista gli chiesero quali erano i suoi maestri di vita, e lui impassibile: «Fernanda Pivano». Stai a sentire bene: gli chiesero perché. Lui disse: «Perché mi ha insegnato ad essere un barbone e un gentiluomo». Una salta la corda dalla gioia a sentirsi dire una cosa così! - Ti sei occupata per tanto tempo del Sogno americano. Tu che sogni hai oggi? - E’ sempre più difficile che si possano realizzare i sogni. Perché i sogni nostri, di quei gruppi lì, sono praticamente crollati con la fine…con la sconfitta atomica. Noi avevamo ottenuto , a forza di rompere i coglioni a tutti, il disarmo nucleare. Che è stata la più grossa delle nostre vittorie. E poi, dopo una settimana dalla firma del trattato Mao ha buttato al bomba. Hai capito? Allora Ginsberg disse: «E’ finita. Evidentemente non si può fare niente. Perché se lo fa un nazista, allora continuano a fare qualcosa. Ma se lo fa Mao, allora cosa vuoi fare?». Era proprio il momento della maggiore popolarità di Mao. - Fu una profonda delusione… Eravamo impazziti per questa cosa. Poi avevamo ancora sognato. L’ultimo sogno che avevamo fatto, era stato meno clamoroso. Avevamo sognato di salvare un certo atollo di corallo azzurro che c’era in Giappone, dove i giapponesi volevano costruire un aeroporto; il che avrebbe significato la fine del corallo azzurro, perché era l’unico atollo di corallo azzurro nel mondo. Noi eravamo diventati pazzi. Ginsberg aveva scritto tremila lettere, cinquemila lettere. Aveva due classificatori, sai quelli della Olivetti, pieni pieni pieni di lettere che aveva scritto. A tutti, a tutti, a tutti. Naturalmente non è servito a niente, hanno costruito l’aeroporto e adesso nel mondo non c’è più corallo azzurro. Quelli erano i nostri sogni, capisci? - Credo di sì. - La gente pensava che noi stessimo lì a scoparci… - Specie te con Kerouac! - Eh (ride)! Ma io con Kerouac…con…con tutti guarda. Io non dovrei avere più la vagina, me l’avrebbero consumata! - Allora hanno ragione i Professori ad avercela con te. Sei di facili costumi! - Facili costumi. Facili facili (ride)! E poi, ricordati, sono anche una divulgatrice dilettante. - Sarai pure una dilettante ma a letto sei un fenomeno! - Bravo. Questa è ben trovata. - Vuoi ricordare Vittorio Tondelli? - Ah, di questo nessuno mi fa parlare. Se vuoi che ti dica qualcosa di Tondelli, ti dirò che lui e Busi sono gli unici scrittori italiani contemporanei che io rispetto. Busi per il suo coraggio, e invece Tondelli per la sua straordinaria dolcezza umana, per la sua straordinaria umanità. Era un ragazzo dolcissimo; impossibile da immaginare. Tanto per dire: quando lui si è ammalato, il compagno con il quale viveva era già morto. Allora abitavano in una strana strada, molto isolata. Un giorno l’ho incontrato; lui faceva andare gli amici là. La casa era molto semplice. C’erano da fare tre piani di scale perché non c’era l’ascensore, non c’era il riscaldamento. Insomma era una casa proprio da artista, come usavano una volta gli artisti francesi. L’ho incontrato e lui mi ha detto che andava via. «Ma come mai?» gli ho chiesto. «Perché vado a casa della mamma, Voglio stare un po’ con la mamma, non la vedo mai». Questo è tutto quello che ha detto. In realtà lui sapeva già che era condannato, ed è andato a morire dalla mamma. Era uno che faceva le cose così. Per esempio: lui aveva fatto con molto coraggio queste antologie di scrittori; mi pare al di sotto dei ventitré anni, una cosa così. Alcuni di questi, invece di ringraziarlo, gli dicevano che lui gli aveva danneggiati: e lui ci sofrriva. Un giorno mi disse: «Sai, bisogna che mi rimetta a lavorare per qui perdo tutto il mio tempo con queste cose, non faccio più niente e non ho più una lira». Perché pagava tutto lui, sempre. E infatti poi fece un libro, subito un best-seller, e si rimise a posto. - Era uno che viveva per la sua arte, fino in fondo. Un po’ come te. - Eh sì, mi somigliava molto, sì. E aveva questa capacità di emozioni, di passioni: sempre per le cause perse. Come facevamo noi. Mai una volta che ne azzeccassimo una.
Posted on: Tue, 10 Sep 2013 12:34:08 +0000

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