Pubblicità. Della pubblicità s’è detto di tutto, da che è - TopicsExpress



          

Pubblicità. Della pubblicità s’è detto di tutto, da che è il male del secolo (incarnando lo strumento che ha fomentato la corsa indiscriminata ed irresponsabile al consumo sfrenato delle risorse del pianeta) a che è l’ultima forma d’arte. Si è ipotizzata una pubblicità subliminale che, attraverso la riproduzione non percettibile a livello conscio di immagini capaci di esercitare una fascinazione sugli strati più profondi della psiche (di norma simboli fallici: non è chiaro perché, ma è così), avrebbe la proprietà di piegare la volontà dello spettatore e di indurlo ad un determinato acquisto. Ci si è compiaciuti di messaggi pubblicitari geniali e sorprendenti; ci si è interrogati sulla capacità di taluni slogans di imprimersi nella mente dei più come un raggio di luce su una pellicola fotografica e di rimanere lì ancorati per decenni (ossia ben oltre il loro scopo commerciale). Ci si è scandalizzati per le immagini crude di Oliviero Toscani; si sono levati severi moniti in ordine allo sfruttamento del corpo femminile, umiliato e piegato a finalità meramente consumistiche; si è censurato il potere ipnotico del battage pubblicitario, ossia della ripetizione ossessiva di un messaggio commerciale asseritamente capace di violentare la volontà del destinatario. Si narra – io, per il vero, non mi sono curato di verificare la fonte e l’attendibilità della notizia – che la pubblicità abbia persino condizionato e mutato taluni aspetti iconografici della nostra cultura; pare, ad esempio, che un tempo gli abiti di Babbo Natale fossero tradizionalmente verdi e che siano diventati rossi allorquando la Coca-Cola si appropriò di tale figura a scopi pubblicitari (essendo il rosso il colore dell’etichetta e delle confezioni della bibita di Atlanta e, dunque, ciò che la identifica presso il consumatore). Da un certo momento in poi, dunque, Babbo Natale ha vestito di rosso, anche al di fuori del contesto pubblicitario della Coca-Cola, in ogni immagine ed in ogni forma di riproduzione. Io con la pubblicità ci sono nato (Carosello è pressoché un mio coscritto e, da allora, la pratica dei messaggi pubblicitari è sempre cresciuta per diffusione, intensità ed incisività, fino a divenire una presenza costante in ogni situazione) e, dunque, per me essa è un fatto del tutto naturale e scontato, come gli alberi, la neve in montagna ed il canto degli uccelli di mattina presto. Può darsi che io sia il soggetto meno indicato per giudicare, ma non mi sembra di essere poi stato deformato, nella coscienza, nella psiche o nei comportamenti, dalla quantità enorme di pubblicità cui sono stato esposto nei cinquantatre anni della mia esistenza. Forse è stato così e non me ne sono accorto (c’è da dire che sono un gran distratto…). Semmai, debbo dire che ho senz’altro maturato dei robusti anticorpi alla pubblicità. Di regola, essa mi dà noia perché, quando è destinata alla generalità delle persone, fa leva, inevitabilmente, sui desideri e sulla visione dell’esistenza del cosiddetto uomo medio (e si tratta di una prospettiva che io trovo tanto vuota, effimera ed insensata da procurarmi una forte irritazione e, sovente, anche manifestazioni esantematiche – per l’uomo medio: orticaria). Se, invece, essa è mirata a precisi target commerciali (i giovani, le donne, i genitori, gli anziani e via discorrendo), me ne sfugge puntualmente il significato, trovandomi io ad essere totalmente estraneo ai linguaggi, al peculiare sense of humor o alle tematiche caratteristiche di questa piuttosto che di quell’altra categoria di persone (come ho già scritto più volte, io sono Calimero il pulcino nero in una covata che, in grande parte, è costituita da pulcini bianchi e gialli; e attenzione: non sono affatto solo, sono semplicemente in buona compagnia). Fatta salva, dunque, qualche rara eccezione (che attiene prevalentemente a momenti del passato – penso alla Linea di Osvaldo Cavandoli, creata per pubblicizzare le pentole Lagostina, o ai blocchi di plastilina in continua trasformazione dello Studio Opit per il Fernet Branca), io reagisco alla pubblicità avvalendomi di un semplice strumento (che mi pare essere la miglior dimostrazione del fatto che la pretesamente onnipotente industria pubblicitaria tanto onnipotente, in realtà, non è – altrimenti avrebbe trovato il modo di farlo sparire): il telecomando. Ciò mi consente di non avvertire neppure i primi sintomi del disturbo pubblicitario: spesso riesco a cambiar canale entro la durata del breve spazio di “nero” che separa l’interruzione del programma che sto seguendo dall’inizio dell’intermezzo commerciale. Stamane, però, ero in macchina (a Milano piove e comincio ad essere un po’ troppo vecchio per andare in giro in motocicletta sotto l’acqua; ieri sera l’ho fatto e stamane non piego la schiena per più di quindici gradi…); in macchina, chi guida, non può guardare la televisione, ma può ascoltare la radio. In realtà, anche la radio dispone di una sorta di telecomando: basta registrare i canali che interessano, dopo di che è un attimo spostarsi dall’uno all’altro e ritornare a quello iniziale con un semplice “clic”; ma non penserete che io sia in grado di registrare i canali dell’autoradio (operazione ad elevato contenuto tecnologico, del tutto inaccessibile alle mie corde). Dunque, con la radio sono un po’ più indifeso: aspetto, semplicemente, che l’interruzione pubblicitaria termini, pensando intanto a tutt’altro (al punto che, sovente, neppure mi accorgo che il programma che stavo ascoltando è ricominciato). Ma l’udito è un senso invadente: è possibile non ascoltare, ma non è possibile non sentire. Così, sento lo speaker che annuncia la pubblicità e, poco dopo, un idiota che chiede alla moglie dove siano le chiavi della sua Volkswagen Golf Tech&Sound; perché un idiota, vi domanderete voi: intanto perché sono curioso di sapere chi di voi chiederebbe alla propria moglie o al proprio marito dove siano le chiavi dell’automobile indicando marca, nome e modello; tutti direbbero “cara, hai visto le chiavi della macchina?”. Ma ammettiamo pure che la famiglia in questione, di automobili, ne abbia due o tre: in tal caso si dirà “dove sono le chiavi della Punto (o del Cherookee o della Jaguar)” e non, certamente, “amore mio, non è che ti sono rimaste nella borsetta, da ieri sera, le chiavi della Mercedes Classe CLS Shooting Brake?”. Ma l’idiota non è tale solo per questa ragione. A precisa domanda, infatti, la povera donna che ha avuto la disavventura di unirsi a lui in matrimonio risponde: “Ma caro! Noi non abbiamo una Volkswagen Golf Tech&Sound!”. E’ chiaro che lei è perfettamente al corrente della grave forma di demenza da cui è affetto il marito e che lo psichiatra le ha consigliato di usargli tutta la dolcezza possibile, pur senza assecondarne le allucinazioni; diversamente, infatti, qualunque moglie avrebbe risposto: “eh? Ma di che cazzo stai parlando?”. L’idiota, tuttavia, non pago replica: “e perché non abbiamo una Volkswagen Golf Tech&Sound?”. Lo spot pubblicitario, poi, prosegue, illustrando le mirabolanti qualità della vettura e lasciandoci del tutto in sospeso quanto al prosieguo della conversazione; non è difficile immaginare che lei dica “perché non l’abbiamo mai comperata, tesoro”, mentre fruga nella borsetta alla ricerca del foglietto sul quale si è annotata il numero di telefono del divorzista. La radio, di fila, trasmette il brevissimo trailer di un futuro programma (del tipo: “tutti i giorni alle 18 Arcibaldo Pizzibutti è con voi su Radio Himalaia con il bollettino della neve”); una manciata di secondi. Poi di nuovo: “Cara, sono stato giù nel box: ma che fine ha fatto la nostra Volkswagen Golf Tech&Sound?”. Non disponendo di telecomando, ho spento la radio.
Posted on: Tue, 19 Nov 2013 08:18:50 +0000

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