Uno i motivi per i quali il PDmenoelle è uguale se non peggio del - TopicsExpress



          

Uno i motivi per i quali il PDmenoelle è uguale se non peggio del PDL: Forleo e Digeronimo, storia di due giudici isolate e nel mirino del “Potere democratico” Per addentrarci in un ragionamento complessivo sui meccanismi censori del Sistema mediatico, in Italia strettamente connesso ai poteri politico ed economico, prendiamo in esame due casi analoghi nel mondo della giustizia. Qui Milano. Forse avrete letto qualcosa, a spizzichi e bocconi, delle minacce e delle ripercussioni professionali subìte da Clementina Forleo, gip di Milano che il 1° agosto 2005 dispose il sequestro di 94 milioni di euro in azioni di Antonveneta, rastrellate da e per conto di Gianpiero Fiorani della Banca Popolare di Lodi, vicino agli ambienti vaticani e di Forza Italia. Nell’ordinanza la giudice sancì il legame con un’altra scalata favorita dal governatore di Bankitalia Antonio Fazio, la prima “rosée” della storia. Le intercettazioni delegate dai pm Eugenio Fusco e Giulia Perrotti fotografavano la partecipazione dei vertici Ds al tentativo di Unipol di fare un sol boccone della Bnl, strappandola ai rivali del Banco di Bilbao. All’epoca i giornali seguirono esaustivamente la vicenda, contestuale all’assalto ad Rcs di un gruppo di immobiliaristi romani guidati dall’odontotecnico Stefano Ricucci, pubblicando le telefonate intercettate tra manager, banchieri e politici. Invece pochi sanno cosa è successo dopo e tutto intorno. L’ingente somma di denaro strappata ai raider è stata riutilizzata a fini sociali, per la scuola pubblica. Clementina Forleo, da quando è giudice di quel procedimento penale, è stata oggetto di gravi e ripetute intimidazioni, a partire dal preannuncio della morte dei genitori in un incidente stradale. Lo schianto è realmente avvenuto il 25 agosto 2005 ma è stata accertata la causa colposa. Due anni dopo, prima della sua seconda (e ultima) partecipazione al programma Rai di Michele Santoro, Forleo ha ricevuto un proiettile in busta chiusa; nel frattempo è stata denunciata per ingiuria da un tenente dei carabinieri di Brindisi addetto alla sua tutela: per avergli osato chiedere della mancata acquisizione dei tabulati dell’utenza dei genitori, oggetto di telefonate mute prima dell’incidente mortale e colpiti dall’incendio della masseria di famiglia. Non è stata fatta luce neppure sullo strano incidente stradale occorso alla gip il 4 dicembre 2009 mentre rientrava a casa dalla sede di Cremona dove il Csm l’aveva trasferita nel luglio 2008, tanto meno si discute della decisione del Prefetto di Milano di non assegnarle alcuna forma di vigilanza. Si tratta di coincidenze ma la sequenza è oggettivamente inquietante. Solo gli amanti degli archivi hanno conservato i trafiletti relativi alla dura motivazione del Tar che bocciava il trasferimento di Clementina per incompatibilità ambientale, votato a maggioranza bulgara con la sola contrarietà dei membri togati di Magistratura Indipendente. Forleo è iscritta all’Anm ma non ha mai aderito ad alcuna corrente. Il Csm aveva contestato in un primo momento sue dichiarazioni generiche sui poteri forti nel corso della puntata di Annozero, poi si era concentrato su rapporti conflittuali con alcuni colleghi, totalmente estranei dall’attività giurisdizionale. Sono da mostrare ai giovani che scelgono di fare il concorso per magistrato le audizioni di toghe milanesi che come Alice nel Paese delle meraviglie si sorprendevano del fatto che la dottoressa Forleo collegasse minacce, attacchi politici, denunce e azioni disciplinari ai provvedimenti sulle scalate bancarie. Ma quando mai: era perseguitata per il “brutto carattere”. Ad esempio, l’allora capo dell’ufficio gip Filippo Grisolia (poi nominato capo di gabinetto al ministero della Giustizia retto da Paola Severino) si domandava pensoso: “Parlando di isolamento, era difficile capire esattamente a cosa si riferisse (Forleo, nda) ma io capii che il suo riferimento, anche attraverso frasi spezzettate che lei diceva, rotte dal pianto e così via, a una serie di iniziative da parte dei colleghi di Brindisi, dei carabinieri di Brindisi, alcuni atti giudiziari da cui nel frattempo era stata raggiunta (…) Diciamo che la conseguenza temporale di questi fatti, che l’avevano sicuramente colpita, in occasione del proiettile, vennero fuori nelle sue parole come prova, come dimostrazione di un isolamento che lei stava vivendo in quel momento. Io rimasi abbastanza colpito perchè… tutte queste situazioni a me sembravano abbastanza diverse o almeno io non ne percepivo i collegamenti”. La vicepresidente della prima Commissione del Csm Letizia Vacca, membro laico in quota Comunisti italiani, etichettò come “cattivi magistrati” Forleo e De Magistris, sulla graticola anch’egli in quel periodo per l’inchiesta Why not. E lo fece alla vigilia della decisione di trasferire la giudice, senza nemmeno astenersi dal voto. Nell’aprile 2009 il Tar, annullando il verdetto del Csm, ha certificato che il provvedimento “si pone al di fuori del parametro normativo e risulta quindi adottato in violazione del principio di legalità e tipicità degli atti amministrativi”: non è stata data “un’esauriente spiegazione sulla plausibilità” del perché l’indipendenza e la imparzialità del gip sarebbero state messe in dubbio dalle sue dichiarazioni; il procedimento non doveva essere di natura amministrativa e in merito alla Vacca “è arduo ipotizzare che l’inosservanza dell’eventuale obbligo di astensione non abbia potuto produrre un’alterazione del procedimento”. L’Anm l’ha presa bene: ha attaccato ufficialmente la pronuncia del Tar, poi confermata dal Consiglio di Stato, parlando persino di un’interpretazione delle norme che impedirebbe al Csm di sanzionare le “opacità e le zone grigie” che appannano il prestigio della categoria. Cioè, secondo lorsignori, l’appannatrice sarebbe Clementina Forleo. Questa pervicacia contra personam è l’emblema dell’intromissione politica nella magistratura associata. Se da un lato vanno riconosciuti i meriti passati di Magistratura Democratica per quanto concerne l’evoluzione del Diritto, oggi la degenerazione delle correnti dell’Anm ha prodotto un uso talmente distorto delle appartenenze da inficiare le scelte relative alle promozioni, ai trasferimenti, alle punizioni e alle difese del singolo magistrato. La politicizzazione inoltre aumenterà se sarà attuata la proposta di Luciano Violante, saggio prescelto dal presidente Napolitano per le riforme costituzionali, di affidare il giudizio di appello per le sanzioni disciplinari dei magistrati ad un’Alta Corte costituita per due terzi da consiglieri laici: un terzo nominato dal Parlamento e un terzo dal Quirinale. Quanti ricordano questi dati? In particolare nessuno conosce ciò che probabilmente spiega tutto il resto: la Procura di Milano ha di fatto salvato Massimo D’Alema e Nicola Latorre. I due esponenti dei Ds, nell’ordinanza del gip Forleo del luglio 2007 finalizzata a chiedere il placet parlamentare all’uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, erano descritti come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte, “consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata che si stava consumando proprio ai danni dei piccoli e medi risparmiatori in una logica di manipolazione e lottizzazione del sistema bancario e finanziario nazionale”. Il provvedimento del gip è stato attaccato dai dominus Ds con l’ausilio dell’apposito onorevole-avvocato (oggi consigliere del Csm) Guido Calvi, quindi è stato giudicato un atto “abnorme” dal procuratore generale della Cassazione Mario Delli Priscoli in una seconda azione disciplinare finita nel nulla. Nè prima nè dopo l’ordinanza i pm milanesi hanno iscritto il leader Massimo e Nicola Latorre sul registro degli indagati. Naturalmente la pubblica accusa è libera di valutare autonomamente ma nella prassi – si permetta un paragone calcistico – è come se l’arbitro (il giudice per le indagini preliminari) rilevasse un comportamento scorretto della Juventus (i due Ds) concedendo un rigore all’Inter (la Procura) e i nerazzurri poi si rifiutassero di calciare. Non perchè fosse ingiusto il fischio dell’arbitro ma per l’asserita necessità di attendere un cenno di approvazione dal quarto uomo a bordo campo (il Parlamento). Difatti il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, in un’intervista concessa il 22 luglio 2007 al Sole 24 Ore, chiariva: ”La nostra scelta è stata di non far nulla, nei confronti dei parlamentari, finchè le Camere non avessero dato l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni telefoniche che li riguardano. E, da questo punto di vista, Forleo ci dà ragione”. Vediamo dunque cosa è accaduto in seguito. Il problema dell’uso delle conversazioni che riscontravano le accuse a Consorte (infine riconosciuto colpevole di insider trading e assolto dall’aggiotaggio per il rotto della cuffia: condannato in primo grado, assolto in Appello, sentenza annullata dalla Cassazione e rinviata per un nuovo giudizio di secondo grado che si è concluso con la prescrizione) è svanito in novembre per effetto della sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la legge Boato nella parte sui ‘non parlamentari’. Per quanto riguarda la posizione di D’Alema la giunta della Camera delle elezioni e immunità ha distinto tra “utilizzabilità investigativa” e “utilizzabilità probatoria”, delle quali solo la seconda necessiterebbe di un nulla osta. La risposta è stata recapitata al presidente del tribunale di Milano Livia Pomodoro che l’ha girata a Clementina Forleo. La gip, il 15 febbraio 2008, ha inviato una nuova ordinanza alla Procura ricordando appunto che l’organo di appartenenza del parlamentare “deve essere investito solo qualora si voglia conferire a dette conversazioni il menzionato carattere dell’utilizzabilità probatoria in dibattimento, e dunque successivamente a iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 codice di procedura penale”. I pm meneghini però non hanno adoperato le telefonate per aprire l’indagine sull’onorevole D’Alema ma le hanno spedite all’europarlamento, dove all’epoca sedeva il leader Massimo, tornando a chiederne l’uso probatorio. Bruxelles ha negato la revoca dell’immunità di cui godono gli europarlamentari. Per quanto riguarda Nicola Latorre il giochetto è stato ancora più sfacciato. Il tribunale di Milano, ricevuti gli atti dal Senato sciolto per la tornata elettorale, non ha consegnato al gip competente Forleo la non-risposta dei parlamentari trasmettendola il 29 maggio 2008 a Edmondo Bruti Liberati. Il procuratore capo di Milano l’ha tirata fuori dal cassetto soltanto il 29 luglio, proprio nei giorni in cui Clementina era assente per malattia a causa di un piccolo incidente al ginocchio. Piero Gamacchio, gip di turno per le urgenze, ha subito reiterato analoga richiesta dell’uso delle telefonate del senatore Latorre. Eppure Gamacchio avrebbe dovuto conoscere la distinzione fatta dalla Camera per il collega di partito. Com’era scontato il relatore della Giunta del Senato Giampiero D’Alia (Udc) ha rispedito gli atti a Milano sottolineando che “non ricorrono i presupposti per l’esame nel merito della domanda”, in quanto “nell’impianto del codice di procedura penale, la nozione di utilizzazione è tecnicamente riferita al piano probatorio, e cioè all’utilizzazione degli elementi di conoscenza, desunti dalle intercettazioni ai fini della prova dei fatti contestati. Il divieto di utilizzabilità conseguente alla mancanza dell’autorizzazione non impedisce, quindi, l’impiego dei predetti elementi di conoscenza per finalità diversa da quelle probatorie, e cioè come fonte di innesco di una investigazione”. Il relatore concludeva dunque che impedirne l’uso a fini investigativi avrebbe comportato una reintroduzione fittizia dell’immunità parlamentare abolita nel 1993. Ergo gli onorevoli D’Alema e Latorre erano indagabili sulla base delle loro telefonate. D’altronde nell’inchiesta Why not il pm di Catanzaro De Magistris aveva iscritto sul registro il deputato Clemente Mastella a seguito di un’intercettazione sull’utenza del referente della Compagnia delle Opere Antonio Saladino. Persino l’allora senatore Ds Gerardo D’Ambrosio, rispondendo alla consueta Liana Milella su La Repubblica del 23 luglio 2007, affermava: ”Sono un garantista per eccellenza. Ma se dagli ascolti veniva fuori una complicità nei reati di Consorte l´iscrizione andava fatta, e se l’autorizzazione veniva negata si archiviava tutto”. Anche se l’opinione nel merito era differente da Forleo: ”Se ci sono solo quelle conversazioni non mi pare che esse siano di per sé sufficienti a supportare le ipotesi di reato prospettate nell’´ordinanza”. Ognuno può formarsi liberamente un’opinione leggendo quei dialoghi Il 6 luglio 2005 il presidente di Unipol Consorte, che sta acquisendo quote di Bnl tramite operazioni occulte prima del lancio della regolare Opa, spiega a Latorre le intenzioni dei contropattisti (i costruttori Gaetano Caltagirone, Danilo Coppola, Ettore e Tiberio Lonati, Giovanni Statuto, e l’eurodeputato Udc Vito Bonsignore, manager di successo nel ramo Autostrade) Consorte: «Loro stanno provando a rilanciare…però hanno capito che non c’è spazio…Adesso il problema qual è? Queste quote le devono comprare terzi» Latorre: «E certo… non potete prenderle voi» Consorte: «Se non accettano vuol dire che hanno, cosa di cui ho gli elementi, trattato con gli spagnoli…Quindi io domani ho l’incontro con loro e ti dico come va a finire». Latorre: «Ma che deve fare una telefonata Massimo…all’Ingegnere (Caltagirone, nda)?» Consorte: «È meglio che Massimo fa una telefonata. Perché, a questo punto, se le cose non vengono fatte, si sa per colpa di chi…Massimo fa una telefonata e a quel punto abbiamo le prove che questi hanno lavorato su due fronti…Non abbiamo i soldi per farla…Che poi non è vero neanche quello, non è che non abbiamo i soldi per farla, è che noi non possiamo farla se no ci accusano di aggiotaggio e di insider, capito?» Telefonata del 7 luglio Consorte:”Sto qua con i nostri amici banchieri a vedere come cavolo facciamo a rimediare ‘sti soldi” Latorre: ”Ah, te l’ho detto, firmo io le fideiussioni. Non rompere, stai tranquillo”. Consorte: “Ma tu non sei credibile con i soldi, non c’hai una lira… tu mi porti solo debiti”. Latorre: “Se c’è una cosa che non ti porto sono debiti”. Consorte: “Senti, hai parlato con Massimo?”. Latorre: “Sì, ma lui domani deve andare a Massa Carrara”. Consorte: “Domani vado in Consob. Incontro le cooperative… ci devono dare ancora un po’ di soldi.. Se me li danno.. eh.. andiamo avanti”. Latorre: “Partiamo (…) Se vuoi ti passo Massimo”. Consorte: “Dai, passamelo”. (Ride). D’Alema: “Lei è quello di cui parlano tutti i giornali…” Consorte: “Guardi, la mia più grande sfortuna… Io volevo passare inosservato, ma non riesco a farcela”. D’Alema: “Eh, inosservato, sì…”. Consorte: “Massimo, ti giuro, il mestiere che faccio io, più si passa inosservati e meglio è… Niente, Massimo, sto provando a farcela… Con l’ingegnere abbiamo chiuso l’accordo questa sera…”. D’Alema: “Ah”. Consorte: “Nel senso che loro ci danno tutto. Adesso mi manca un passaggio importante e fondamentale. Sto riunendo i cooperatori perché sono tutti gasati… Gli ho detto: però dovete darmi i soldi, non è che potete solo incoraggiarmi”. D’Alema: “Di quanto hai bisogno ancora?”. Consorte: “Di qualche centinaio di milioni di euro”. D’Alema: “E dopo di che, fate da soli?”. Consorte: “Sì, Unipol, cinque banche, quattro popolari e una banca svizzera” D’Alema: “Ah, ah”. Consorte: “Eh, eh (…) E andiamo avanti, facciamo tutto noi. Avremo il 70 per cento di Bnl”. D’Alema: “Ho capito”. Consorte: “Secondo te, Massimo, ci possono rompere i c… a quel punto?”. D’Alema: “No, no…. Sì, qualcuno storcerà il naso, diranno che tu sei amico di Gnutti e Fiorani (…) Va bene. Vai avanti, vai!”. Consorte: “Massimo, noi ce la mettiamo tutta”. D’Alema: “Facci sognare! Vai!”. Consorte: “Anche perché se ce la facciamo, abbiamo recuperato un pezzo di storia, Massimo, perché la Bnl era nata come banca per il mondo cooperativo”. D’Alema: “E si chiama ‘del Lavoro’, quindi possiamo dimenticare?”. Consorte: “Esatto… È da fare uno sforzo mostruoso, ma vale la pena a un anno dalle elezioni” D’Alema: “Va bene, vai…” Conversazione del 14 luglio D’Alema: “A che punto siete? No, ma non mi dire nulla a che punto siete. No, ti volevo dire una cosa… “. Consorte: ”È tutto chiuso”. D’Alema: ”È venuto a trovarmi Vito Bonsignore (detentore del 2.8% di azioni Bnl, nda)…”. Consorte: ”Sì. Ci ho parlato ieri…uhm”. D’Alema: ”Che dà… un consiglio” Consorte: ”Sì, se rimanere dentro o vendere tutto”. D’Alema: ”No, voleva dirmi… voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli avevi chiesto di fare… oppure no (ridacchia)”. Consorte ride. D’Alema: ”Che voleva alcune altre cose… diciamo”. Consorte: ”Ecco immaginavo. Non era disinteressato”. D’Alema: “A latere su un tavolo politico…” Consorte: ”Eh eh”. D’Alema:” Ti volevo informare che io ho… ho regolato da parte mia”. Consorte: ”Eh”. D’Alema:” Lui mi ha detto che lui resta, ha detto che resta…” Consorte: ”Ah, sì. Uhm. bene”. D’Alema: ”È disposto a concordare con voi un anno, due anni…”. Consorte:”Uhm, uhm”. D’Alema:”…il tempo che vi serve”. Consorte: “Sì, sì. No, ma io lì sono stato… In effetti, ho detto: ‘Guardi, decida come ritiene meglio’ – dico – ‘se lei vuole uscire, noi… onoreremo gli impegni subito come facciamo con gli altri, se lei rimane ci fa piacere…” D’Alema: “Eh…Gianni, andiamo alla… al sodo, se vi serve resta… “. Consorte:”Sì, sì, sì, sì. E basta”. D’Alema:” Poi… noi non ci siamo parlati eh?”. Consorte:”No, assolutamente… D’Alema:”Però ecco… (ridacchia)…Ecco, però ti volevo dire questo” Consorte:”Lunedì… lunedì lanciamo l’Opa. Abbiamo finito” Mutazioni e preoccupazioni. Il conduttore di Ballarò Giovanni Floris nella trasmissione del 27 giugno 2007 ha domandato della contropartita chiesta da Vito Bonsignore. Massimo D’Alema ha risposto lapidario:”Ma lei non si preoccupi”. I media l’hanno subito accontentato: ci hanno messo una pietra sopra. Ad abundantiam è calata la cappa della censura anche su due complotti che sarebbero stati orditi ai danni della Forleo. Un senatore Ds del calibro di Ferdinando Imposimato, noto giudice antiterrorismo, ha testimoniato di una riunione del 6 giugno 2007 presso l’ufficio della capogruppo Anna Finocchiaro in cui alcuni dalemiani invitavano il guardasigilli Mastella ad inviare ispettori contro Clementina. Inoltre il 19 giugno 2011 il gip di Cremona Guido Salvini, che aveva prestato servizio al palazzo di Giustizia di Milano, ha rivelato sulla mailing list di Magistratura Indipendente un fatto ancor più grave: di aver assistito a “scene desolanti quali l’indizione con passa parola di riunioni pomeridiane in alcune stanze per discutere la strategia contro la collega, guidate dai maggiorenti dell’ufficio tra cui un paio di colleghi ‘Verdi’ più rancorosi di tutti, come spesso accade, anche se del tutto estranei al caso”. Il sostituto procuratore generale della Cassazione Carmelo Sgroi ha negato l’audizione testimoniale di Salvini con la surreale motivazione che prima avrebbe dovuto fornire riscontri. Csm e Anm, come pietrificate, non hanno profferito verbo. A differenza dei colleghi che sono scesi in politica Clementina è diventata unfit per tv e giornali. Soltanto il settimanale Oggi ha osato intervistarla (Qui l’intervista integrale) sulla denuncia di Salvini. Che non può restare sospesa in eterno: se la congiura è un’invenzione va punito severamente il giudice, se è vera siamo di fronte a un fatto gravissimo avvenuto nel tempio della giustizia di via Freguglia. La cartina di tornasole del Sistema (teatro) politico-mediatico sono gli house organ berlusconiani, sempre pronti a scatenare (a torto) campagne contro i magistrati che hanno emesso verdetti negativi per il proprietario, e a scavare (talvolta a ragione) sulle difficoltà di talune inchieste come quella su Mps, a partire dal rigetto da parte del gip di Siena delle richieste di intercettare i manager del Monte coinvolti nella compravendita a peso d’oro di Antonveneta e nelle manovre per occultarne le perdite. Quando sono costretti a ripiegare con la memoria sulla vicenda delle scalate bancarie del 2005, i cui processi si sono conclusi soltanto l’anno scorso, glissano o al massimo accennano in modo criptato. D’Alema e Latorre a Milano sono tabù anche per chi ha allucinazioni di toghe rosse. Al contrario tutti si fronteggiano a viso aperto su indagini e processi di Silvio Berlusconi, concernenti episodi gravi ma noti da tempo, il primo dei quali è giunto al pettine, a causa di depenalizzazioni pro domo sua e prescrizioni del reato, soltanto all’alba dei 77 anni del Cavaliere. Le trattative e i retroscena per l’ennesimo salvacondotto occupano decine di pagine e di studi televisivi accendendo ora l’entusiasmo ora la collera di 60 milioni di “commissari tecnici”. Forse si consente un dibattito così approfondito – è l’inevitabile retropensiero – poiché non persiste alcun rischio concreto per il potente pregiudicato. Anche dovessero sopraggiungere altre condanne definitive sul cumulo dei 4 anni di pena per frode fiscale (3 coperti da indulto) sulla compravendita dei diritti tv Mediaset dalle major americane, Berlusconi non finirà in cella per effetto della legge ex Cirielli che vieta la reclusione carceraria per gli ultrasettantenni. Non solo: potrà continuare a spadroneggiare in ragione di nuove norme o interpretazioni per eludere detenzione domiciliare, pene accessorie e il divieto di candidabilità previsto dalla legge Severino. Qualora non arrivassero le leggi ad personam di questi ultimi trent’anni (il decreto Craxi-Berlusconi, passato grazie al mancato ostruzionismo del Pci nel 1985, autorizzò la diffusione delle trasmissioni Fininvest sul territorio nazionale malgrado sentenze contrarie della Corte costituzionale e, al contempo, avviò nella Rai una lottizzazione nuova con la terza rete affidata ai comunisti) il noto delinquente potrebbe tornare premier senza candidarsi. Ricordare la lampante indecenza di Berlusconi e dei suoi manutengoli è utile a comprendere l’involuzione culturale e le macerie morali del suo modello. Ma i riflettori dovrebbero essere puntati senza sconti sull’altro lato del palco, sul “Potere democratico” che si perpetua anche grazie all’alleanza (di fatto) e allo spauracchio (in favor di telecamera) del “Cavaliere nero”. Trovo insufficienti le accuse di eccessiva timidezza, ingenuità o sudditanza nei confronti dei dirigenti del Pd e del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Non si tratta di stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, se il patto con Berlusconi confessato da Violante nel 2002 (Qui il link all’intervento alla Camera) avesse preso le mosse nella seconda metà degli anni ’80 per il tramite di Craxi e della corrente migliorista di Napolitano. In altre parole, se quel legame con i rampanti della Milano da bere sia stato causa o effetto della mutazione antropologica della sinistra dopo la morte di Enrico Berlinguer. La “complicità” tra gli opposti schieramenti è riscontrabile per tabulas non solo in relazione agli affari bipartisan e alle coperture reciproche sulle verità scomode, ma anche in termini di politiche in materia di giustizia e di economia. Il partito post occhettiano ha prima inseguito la Terza Via liberista del premier inglese Tony Blair, poi è confluito con gli ex democristiani nel Pd e infine ha sostenuto le politiche di austerity imposte dall’Europa (rapporto deficit/Pil e Fiscal compact) tramite i governi Monti e Letta. Il riformismo all’italiana non ha prodotto riforme concrete in direzione delle decantate meritocrazia e pari opportunità neppure tra i fautori delle quote rosa. Basti pensare che in un Paese dove le donne ottengono migliori risultati nelle università e nelle professioni, salvo Grazia Francescato per un breve periodo portavoce dei Verdi, nessuna è mai stata segretaria di un partito di sinistra o ministro dell’Economia, per non parlare della presidenza del Consiglio e della Repubblica come avviene in Europa e nel mondo. Renzi, appoggiato da big della finanza e gradito a Berlusconi, è la prosecuzione del veltronismo con altri mezzi, privo del peccato originale comunista ma con al fianco la nomenclatura che diceva di voler rottamare. Entrambi, Walter e l’erede Matteo, hanno reso omaggio all’amministratore delegato della Fiat più antisindacale della storia, Sergio Marchionne, chiedendo la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La cosa più sorprendente è che con il pretesto di conquistare il voto moderato la sinistra ha smesso di preoccuparsi, a parte casi singoli locali, delle condizioni della maggioranza del proprio elettorato: i lavoratori dipendenti e le classi sociali disagiate. Inseguendo i dettami della finanza pubblica e le sirene di quella privata il Pd ha ormai messo in soffitta anche le tesi di John Maynard Keynes e del socialismo europeo. I tagli che si sono susseguiti non hanno inciso su sprechi e indebitamenti di ministeri, Enti e società partecipate dovuti a moltiplicazione di cda e consulenze, uso spregiudicato dei derivati, assegnazione di appalti esosi e relative penali onerose. Al contrario, sono finite nel tritacarne risorse pubbliche nei settori che misurano la qualità di una società: sanità, scuola, ricerca, servizi. Nei sette anni di governo (1996-2001, 2006-2008) la sinistra moderna è stata complementare e simbiotica col berlusconismo. Se per quanto riguarda la giustizia ha conservato tutte le leggi vergogna introducendone di proprie (depenalizzazione dell’abuso d’ufficio, giusto processo, limite di 180 giorni per le dichiarazioni dei pentiti) in ambito economico non è stata da meno: ha favorito la precarietà con il ritorno al lavoro interinale (legge Treu), privatizzato reti strategiche come Autostrade e Telecom (Enrico Letta nel 2011 propose di proseguire con Eni, Enel e Finmeccanica) e servizi comunali senza realizzare una vera libera concorrenza, ha partecipato alla guerra della Nato contro la Serbia, finanziato le scuole private come nemmeno la Dc, lasciato mano libera agli inquinatori dell’Ilva di Taranto. Non paghi, hanno preso ad occuparsi dei simboli del capitalismo più spregiudicato, i mercati finanziari e le banche, quasi a completare la parabola cantata da Antonello Venditti nel 1975. Nel giro di un biennio diversi personaggi chiave del Pd, dalla Lombardia al Lazio, dall’Abruzzo alla Calabria, dall’Emilia Romagna alla Puglia, sono stati coinvolti in inchieste su speculazioni edilizie, tangenti o rapporti con la mafia in regioni “vergini”. Ma su tutto questo – epitaffio della ragione sociale della sinistra e scandali occultati – torneremo presto. Citiamo soltanto il caso dell’avvocato Flavio Fasano, che da sindaco di Gallipoli nell’agosto 1994 organizzò il famoso pranzo “del ribaltone” tra Massimo D’Alema e il segretario del Ppi Rocco Buttiglione. In seguito assessore provinciale a Lecce e onorevole mancato, Fasano è un pregiudicato per abuso edilizio per aver concesso la realizzazione di un villaggio turistico in una zona sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta. Inoltre è rimasto in contatto con un vecchio cliente, il boss della Sacra Corona Unita Rosario Padovano. Alcuni giorni dopo l’uccisione del fratello Salvatore “Bomba” Padovano, avvenuta il 6 settembre 2008, il Ros dei carabinieri ha intercettato più telefonate tra Rosario, che risulterà il mandante del fratricidio, e uno scoppiettante Flavio Fasano. Conversazione del 10 settembre Padovano: «Da mia sorella, sì. Sono stato questa mattina da mio cognato e dopo vado più tardi con mio cugino Giorgio, anche. Eh… stavo dicendo… oggi no! Leggevo sul giornale… che insinuavano… praticamente… insinuavano ora, sospettano che… il killer avesse agito a volto scoperto no? E che per paura i presenti non… non dicevano… non rivelavano il nome, insomma». Fasano: «Come fanno a sapere queste cazzate i giornalisti?». Padovano: «Oh! Appunto! Eh… Il fatto è… che… insomma Giorgio non… non è proprio il tipo, come abbiamo parlato, avrebbe detto su… poi una cosa strana, perché io ho capito come se si sono convin… la dinamica dovrebbe rivedersi… vorrei un consiglio vostro…». Fasano: [incomp.] «Tu puoi venire nel pomeriggio da me a Lecce?». Fasano non è indagato per questa vicenda e D’Alema non ha mai avuto a che fare con la Scu – i Padovano alloggiarono per 40 anni abusivamente nel teatro comunale di Gallipoli, non a casa del politico – ma i media nazionali intenti a soppesare dalemiani di scarso livello non hanno mai speso una virgola per questa storia nel tacco d’Italia. Ci volle un lustro (grazie allo scoop di Maurizio Tortorella di Panorama ripreso da Marco Travaglio) per scoprire che il re delle cliniche sanitarie di Bari Francesco Cavallari aveva ammesso nel 1995, davanti ai pm Alberto Maritati, Giuseppe Scelsi, Giuseppe Chieco e Corrado Lembo, di aver versato dieci anni prima 20 milioni di vecchie lire a D’Alema, un finanziamento illecito a quel punto prescritto. E stiamo parlando solo di un contributo elettorale. Flavio Fasano, invece, è l’uomo-chiave nella base logistica del Salento, si è occupato di organizzare al leader Massimo incontri politicamente decisivi e campagne elettorali che lo hanno sospinto in parlamento in un’area tradizionalmente moderata. Per rendere l’idea del groviglio gallipolino nel 2001 Forza Italia locale ha inventato un voto disgiunto per le Comunali e le Politiche, scegliendo D’Alema contro Alfredo Mantovano del centrodestra. Qui Bari. A cascata si possono trovare altri esempi di come le inchieste che hanno colpito o sfiorato i gangli del Potere Democratico siano state minimizzate o manipolate. Sfogliando le pagine dei principali quotidiani è oggettivamente proibitivo per un cittadino comprendere la vicenda che ha portato il pm Desirèe Digeronimo a lasciare la Procura di Bari per trasferirsi a Roma. Se il resoconto più o meno dettagliato delle indagini sulla Sanitopoli pugliese ha permesso al lettore quel minimo sindacale di conoscenza, la miscela di attacchi politici e veleni provenienti dagli uffici giudiziari hanno agevolato l’alterazione dei fatti. Il meccanismo è tanto semplice quanto ignoto all’opinione pubblica: un certo giornalismo si affida alla versione di una sola parte – siano essi politici coinvolti, avvocati di grido o magistrati non impegnati nel caso – senza preoccuparsi di capire, e talvolta nemmeno di ascoltare, il punto di vista di chi sta conducendo le indagini. E’ la medesima tecnica che il filtro mediatico, in Emilia Romagna, ha utilizzato per isolare i pm scomodi e silenziare le inchieste giudiziarie e giornalistiche che incidevano nella carne viva del Potere. Ma partiamo dall’inizio. Il sostituto procuratore della Dda di Bari Desirèe Digeronimo, sotto scorta per aver inferto duri colpi alla Sacra Corona Unita, stava delegando accertamenti sull’aggressione del 5 luglio 2006 al giornalista di Radio Regio di Altamura, Alessio Di Palo. In quel momento, scandagliando la pista dei mandanti fornita dallo stesso cronista, vale a dire i rapporti tra politici locali e il ras dei rifiuti Carlo Dante Columella, il Ros dei carabinieri si è imbattuto nel sistema ruotante attorno all’assessore regionale alla Sanità Alberto Tedesco. Le indagini di Digeronimo hanno scoperchiato una Babele di illeciti a cominciare dal presunto favoritismo alla ditta di Columella, vicino ai Tedesco, in relazione all’ appalto milionario per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti ospedalieri. L’esponente socialista, poi passato al Pd, era stato nominato nel 2005 dal nuovo governatore Nichi Vendola benchè i familiari operassero da tempo nel settore delle protesi ortopediche. Le motivazioni che il 23 febbraio 2011 hanno portato il gip Giuseppe De Benedictis a ordinare l’arresto di Tedesco, salvato dal niet del Senato dove nel frattempo si era fatto eleggere, sono durissime:“Organizzava e guidava l’intera struttura in modo da pilotare le nomine dei dirigenti delle Asl pugliesi, effettuate dalla giunta regionale, verso persone di propria fiducia e attraverso questi controllava la nomina dei direttori sanitari in modo da dirottare le gare di appalto e le forniture verso imprenditori a lui legati da vincoli familiari o da interessi economici ed elettorali». Si poteva scoprire prima? Forse sì. I pm Roberto Rossi e Lorenzo Nicastro hanno depennato dalle utenze da intercettare il nome di Tedesco e dei familiari suggeriti nell’informativa della Guardia di Finanza di Bari del 27 novembre 2007. Le fiamme gialle, fra le altre cose, sottolineavano la presunta fornitura irregolare alla ditta Gms, che distribuisce protesi ortopediche fornite da una società, la AF Medical Srl, riconducibile ad uno dei figli dell’assessore Pd. Il quale infine, senza una telefonata intercettata, è uscito indenne da questo filone. Per la cronaca, nel 2010 Nicastro ha svestito la toga per andare a ricoprire l’incarico di assessore all’Ecologia della giunta Vendola. Nell’inchiesta di Digeronimo vengono contestati a Tedesco diversi episodi: ad esempio la destituzione del direttore generale dell’Asl di Taranto Mario Urago, capace di ridurre il disavanzo di bilancio ma ‘reo’ di non affidare la direzione dell’Ortopedia a medici utilizzatori delle protesi di una ditta in affari con uno dei figli dell’assessore; o la richiesta avanzata al direttore dell’Irccs di Castellana di nominare seduta stante un suo protetto. Una cimice ha registrato nell’ufficio di Tedesco un colloquio tra l’assessore e il fratello del sostituto procuratore Pino Scelsi, Michele, di professione medico. Niente di penalmente rilevante, tanto che la stessa pm informò il capo della Procura Emilio Marzano e il collega. Per tutta risposta Scelsi fece spiare la Digeronimo disponendo un’intercettazione d’urgenza, poi respinta dal gip, sull’utenza di un’amica medico, Paola D’Aprile. Nell’agosto 2009, dopo essere stato ascoltato come persona informata sui fatti, Nichi Vendola ha diffuso pubblicamente una lettera indirizzata alla Digeronimo con allusioni e accuse di parzialità indimostrate (qui il testo integrale della lettera). Un’aggressione che se fosse avvenuta in campo berlusconiano avrebbe fatto gridare allo scandalo. Invece il Csm non ha aperto alcuna pratica a tutela della pm. E’ l’inizio di un vero e proprio isolamento, che Desirèe racconterà agli ispettori del Ministero della Giustizia sottolineando come l’indagine sull’assessorato alla Sanità verosimilmente avesse inciso “sui rapporti con i colleghi di Magistratura Democratica”, sua ormai ex corrente. Il primo a lamentarsi della situazione in Procura è però Pino Scelsi, che denuncia una clamorosa interferenza nella sua inchiesta sulle escort procacciate da Gianpiero Tarantini per Silvio Berlusconi: il nuovo procuratore Antonio Laudati, poco prima di insediarsi a Bari, avrebbe tentato di frenare l’inchiesta che nell’estate 2009 ha prodotto le prime “scosse” (termine coniato da D’Alema nella preveggente dichiarazione televisiva a pochi giorni dallo scoppio dello scandalo sui giornali) sul governo di centrodestra. Laudati deve rispondere, nella sede competente di Lecce, anche di abuso d’ufficio per aver creato una squadra di finanzieri al fine di controllare Digeronimo e Scelsi, a sua volta accusato dello stesso reato ai danni della collega per l’intercettazione ordinata “per ripicca”. E Nichi Vendola? La sanità, se si eccettua l’inerzia politico-istituzionale sull’inquinamento killer dell’Ilva di Taranto, è il suo tallone d’Achille. Certo, è uscito intonso nell’inchiesta sul ‘Sistema Tedesco’ nonostante un’informativa del Ros gli contestasse pressioni sul direttore dell’Ausl di Lecce per rimuovere un dirigente sgradito. L’immagine del comunista sognatore però si è macchiata nella vicenda della realizzazione dell’ospedale tarantino San Raffaele del Mediterraneo in partnership con don Luigi Verzè, sacerdote berlusconiano. Il progetto è abortito solo dopo la scoperta, nel 2011, del crac della fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor. Inoltre nell’aprile del 2012 Vendola si è ritrovato indagato per abuso d’ufficio in due procedimenti: presunti indebiti rimborsi all’ente ecclesiastico Miulli che gestisce un moderno ospedale privato; la nomina del dottor Paolo Sardelli a direttore della Chirurgia toracica del San Paolo di Bari grazie alla riapertura dei termini del concorso, secondo la direttrice dell’Asl (coimputata) Lea Cosentino , avvenuta su istigazione dello stesso governatore. Per quest’ultima vicenda il 31 ottobre il gup Susanna De Felice ha assolto Vendola e Consentito. Alla vigilia del processo con rito abbreviato il governatore aveva stupito annunciando il ritiro dalla politica in caso di condanna. Subito dopo il Csm, su richiesta dei consiglieri di ‘Area’, ha aperto un procedimento disciplinare per valutare il trasferimento di Desirèe Digeronimo per incompatibilità ambientale. La decisione è giunta quando la pm e il co-assegnatario Francesco Bretone, informati da colleghi dei rapporti di amicizia tra la sorella di Vendola e il gup De Felice, si sono rivolti agli organi competenti. O meglio: quando la lettera, spedita in via riservata ai capi degli uffici della Procura di Bari e della Procura generale presso la Corte d’appello, è finita sulle pagine de La Repubblica. A quel punto la De Felice ha dichiarato di aver sottoposto al capo dell’ufficio gip Antonio Diella il problema di alcune cene con Patrizia Vendola e di aver ricevuto dal superiore l’invito a non astenersi. Come un sol uomo pronto alla bisogna, 26 magistrati hanno sentito la necessità di firmare per definire «irrituale» la missiva del pm Bretone e della collega, ricordando che avrebbero potuto chiedere la ricusazione prima della sentenza. Tuttavia risulta ancora più irrituale, oltre alla divulgazione mediatica della lettera, la richiesta orale di Susanna De Felice al capo della sezione gip, giacchè la domanda di astensione prevede un’istanza formale al presidente del tribunale. A pochi giorni dalle Politiche del 2013 Panorama pubblica la foto di un pranzo del 2006 con Nichi Vendola e sei sorridenti magistrati : Susanna De Felice e il fidanzato Achille Bianchi, all’epoca pm di Trani, i sostituti procuratori baresi Gianrico Carofiglio (poi onorevole democratico), la moglie Francesca Pirrelli e Teresa Iodice, il giudice del Tribunale civile di Trani Emma Manzionna. Nessuno batte ciglio. Il 26 luglio 2013, invece, il Csm delibera il trasferimento di Desirèe Digeronimo a Roma come da lei richiesto. Non saranno discusse le accuse nei confronti della pm, anche queste decisamente irrituali: dai rapporti con la dottoressa Aprile, conoscente della Cosentino ma totalmente estranea alle indagini, a un lungo elenco di “contrasti coi colleghi”. Proprio come accaduto a Clementina Forleo, persino nella forma della incompatibilità “incolpevole” che il Tar ha poi incenerito. In sostanza l’organo di autogoverno dei magistrati, a Milano come a Bari, considera improvvisamente incompatibili con l’ambiente due toghe che avevano ottenuto valutazioni eccellenti. Guardo caso si tratta delle giudici che hanno trattato procedimenti penali sui potenti della sinistra. Se dalla politica non c’era da aspettarsi nulla, quello della società civile e della stampa paladine della condizione delle donne e di altri magistrati nel mirino di imputati eccellenti, è un silenzio assordante.
Posted on: Thu, 12 Sep 2013 09:51:23 +0000

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